Non accenna ad arrestarsi l’azione di «pulizia» promessa dal presidente Erdoğan a seguito del fallito golpe: tra arresti, torture e sospensioni, s’inserisce anche il proposito di richiedere agli Stati Uniti l’estradizione di Fethullah Gülen, il leader religioso accusato di essere l’artefice del colpo di Stato.

Tale richiesta, che Ankara invierà nei prossimi giorni all’alleato NATO, potrebbe inasprire ulteriormente i rapporti tra le due potenze. I vertici turchi, nei giorni immediatamente successivi ai disordini, hanno difatti accusato gli Stati Uniti di fare da “scudo” ai nemici della Turchia – «Non riesco a immaginare un Paese che possa sostenere quest’uomo […] Un Paese che lo sostenga non è amico della Turchia. Sarebbe persino un atto ostile nei nostri confronti» è stata l’insinuazione del premier Yildirim.
Il proposito di richiesta di estradizione è stato annunciato e ribadito da Erdoğan durante un’intervista alla CNN, durante la quale, su domanda diretta dell’intervistatore, ha chiarito che la Turchia non è disposta ad accettare un rifiuto da parte degli USA: «Se tu chiedi che qualcuno sia estradato, e tu sei un mio partner strategico, io obbedisco, rispetto l’accordo. Ma se tu non fai lo stesso… ci dovrebbe essere reciprocità in questo genere di cose».
Gli Stati Uniti, nella figura di John Kerry, hanno dichiarato sin dal principio di essere totalmente all’oscuro di un presunto coinvolgimento di Gülen e di essere intenzionati a prestare tutto l’aiuto possibile affinché i responsabili del golpe vengano individuati e l’ordine torni a essere protagonista nello Stato turco. Obama, con richiamo all’azione di repressione messa in atto da Erdoğan, ha invitato «tutte le parti ad agire nel rispetto della legge ed evitare azioni che potrebbero tradursi in ulteriore violenza e instabilità» – invito che, ad oggi, non sembra essere stato accolto.

L’appello a rispettare lo stato di diritto e, in generale, i diritti umani giunge anche dall’Unione Europea, impotente dinanzi alla violenza con cui il presidente turco intende lavare via il lezzo della ribellione.

In Turchia, difatti, non appena il golpe è stato sedato, si è immediatamente insinuato il proposito di ripristino della pena di morte quale unica “punizione” degna di un tale tradimento. Sia Erdoğan, che Yildirim hanno ribadito come tale scelta spetti al Parlamento e che, sottolinea il presidente sempre alla CNN, «qualunque sia la decisione del Parlamento, io la approverò».
La presa di posizione di Erdoğan e del suo governo è dunque chiara: malgrado gli ammonimenti da parte di USA e UE, malgrado il “rischio” di ulteriore rallentamento, o fine, del processo di adesione all’Unione, la Turchia non ha intenzione di porre freno alla propria vendetta – la violenza non sembra essere più una scelta, ma una necessità.

La reazione al colpo di Stato sta chiamando in causa soldati, giudici, civili, dipendenti del ministero: coinvolge tutti i sospettati di avere avuto legami con Gülen o di essere stati semplicemente coinvolti nel golpe. Colui “innocente sino a prova contraria” non sembra trovar spazio in Turchia, nazione in apparenza spaccata in due: da un lato i traditori e dall’altro i fedeli al presidente – «Il Paese è attraversato da un forte conflitto sociale, una polarizzazione di cui il golpe è stato il punto più alto, più evidente e drammatico. Per Erdogan certo è stata l’occasione per eliminare il dissenso non solo politico, ma nel cuore delle istituzioni. E questo, al di là delle scelte sul destino dei rivoltosi, non potrà che aumentare la spaccatura del Paese» spiega Carlo Frappi, ricercatore associato dell’ISPI e docente alla Cattolica, in un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano.

Il Commissario europeo Johannes Hahn ha insinuato che il governo turco, prima ancora del golpe, avesse stilato una lista di soggetti da arrestare, affermazione cui ha reagito il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu, accusando Hahn di non aver compreso la situazione esistente in Turchia e ribadendo che dall’UE e dagli alleati ci si aspetta l’appoggio teso a «sostenere il processo democratico in Turchia» e a «condannare in modo forte il tentativo di colpo di Stato».

Nessun ammonimento è abbastanza forte da convincere Erdoğan a mutare strategia nei confronti dei golpisti: né le preoccupazioni degli Stati Uniti, né lo spettro della mancata adesione all’UE.

Ma tali ammonimenti – tesi a invocare equità, giustizia, proporzionalità, rispetto dei diritti umani –, cadendo nel vuoto, sembrano porre in evidenza l’impossibilità di smettere ogni dialogo con l’alleato turco. Nonostante tutti stiano esprimendo biasimo nei confronti dei metodi discutibili di Erdoğan, nessuno Stato ha, ad oggi, avuto la forza di condannare in maniera categorica ciò che sta accadendo in Turchia: si esprime preoccupazione, si avverte, si monitora, si sollecita, ma non si condanna.
Jens Stoltenberg, segretario della NATO, dopo aver ricordato al presidente turco che il suo Stato è membro di un’Alleanza che impone «il pieno rispetto dell’ordine costituzionale e delle libertà fondamentali», ha precisato come la Turchia resti comunque «un alleato valido della Nato con il quale sono solidale in questo momento difficile».

Focalizzando l’attenzione sul rapporto Turchia-UE, risulta difficile non chiamare in causa il “compromesso” esistente tra le due parti in materia di migranti: per l’Unione Europea è fondamentale la collaborazione di Ankara, sulla quale ha costruito la “soluzione” allo spinoso problema.
Il trattato in materia è nato sulla base di uno scambio tra le due potenze, uno scambio che ha visto la Turchia imporre più di una condizione e l’Europa accettare, seppure con titubanza, seppure temporeggiando in attesa di ricevere. A caratterizzare l’atteggiamento della nazione di Erdoğan è sempre stata la convinzione di essere indispensabile all’Europa, e tale convinzione potrebbe oggi significare per l’Europa l’essere costretta ad accettare l’intesa con una non-democrazia, che osteggia i diritti umani.

Punto focale dell’influenza turca sul piano internazionale è anche il traffico di petrolio e gas, di cui è protagonista. Nonostante il golpe e le preoccupazioni a esso legato, la questione relativa a tale commercio sembra essere tornata alla normalità, con la Turchia tornata operativa immediatamente.

La situazione che si delinea è quella di un Paese cui fanno capo interessi di varia natura, con cui è complicato, se non impossibile, interrompere i rapporti. Amnesty International, probabilmente consapevole di ciò, ha invitato Ankara a non proseguire la scia di sangue generatasi a seguito del golpe, sottolineando la necessità di far fronte ai malumori senza rinunciare ai diritti, a un equo processo, senza rinunciare, in sintesi, al rispetto della democrazia, della civiltà e dell’umanità stessa.

Rosa Ciglio

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