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Facciata di Palazzo Madama, sede del Senato, Roma. Fonte immagine: senato.it

Mancano pochi giorni al referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Stando all’ultima rilevazione IPSOS è in netto vantaggio il , che ha raggiunto il 71%. Il tema forte del fronte del consenso alla riforma costituzionale è senz’altro il taglio ai costi del parlamento, stimato dallo stesso governo in 500 mila euro a legislatura. In effetti, la modifica alla Carta porta naturalmente ad un’eliminazione degli stipendi da erogare, considerando che il numero dei parlamentari si ridurrebbe da 945 a 600. Attualmente ciascun deputato percepisce un’indennità al netto delle tasse di 5 mila euro mensili, mentre ciascun senatore guadagna tra i 5.100 e i 5.300 euro al mese, a seconda che svolga o meno un’attività lavorativa collaterale al mandato.

All’indennità bisogna aggiungere i rimborsi spese, che nel complesso oscillano tra gli 8.500 e i 9 mila euro al mese e sono esentasse. Dunque, annualmente, ciascun parlamentare percepisce in media 165mila euro. Se la riforma costituzionale dovesse superare la prova del voto, si avrebbe un risparmio di costi del parlamento di quasi 57 milioni di euro all’anno (ossia 165mila euro moltiplicato per 345 parlamentari in meno).

Ma come fermamente richiamato dal fronte del No, composto da un nutrito gruppo di studiosi del diritto, a rendere problematica la riforma costituzionale è la linearità del taglio del numero di deputati e senatori. Essa non è inserita in un processo di modifica organica che implichi, ad esempio, un superamento dell’attuale bicameralismo paritario, che aggrava i tempi di approvazione dei provvedimenti normativi, così come una nuova legge elettorale che si adatti alla diminuita composizione del parlamento. Il rischio maggiore della riduzione del numero dei parlamentari sembra poi essere la perdita di rappresentatività, con un depotenziamento arbitrario del ruolo delle camere.

Tuttavia se il fine della riforma costituzionale è il taglio dei costi del parlamento, si potrebbe prospettare uno scenario alternativo ed ugualmente valido che non implichi un intervento sulla Costituzione “alla cieca”, senza una chiara e pianificata modifica di sistema. Infatti a disciplinare ed individuare il trattamento economico dei parlamentari, che resta la parte più consistente dei costi del parlamento, è la legge 1261 del 1965. La normativa assegna agli Uffici di presidenza di Camera e Senato la funzione di stabilirlo: basterebbe dunque una delibera di questi Uffici per ridurre l’ammontare di quanto percepito da deputati e senatori.

Il tema della riduzione dei costi del parlamento è popolare ed è stato rispolverato di tanto in tanto nel corso delle legislature, ma mai affrontato seriamente. Per quanto riguarda il trattamento economico dei parlamentari, l’ultima proposta di legge in ordine di tempo è stata quella del deputato del Pd Luigi Zanda. In sostanza, si proponeva di parametrare l’indennità di deputati e senatori italiani a quella – più bassa – degli europarlamentari. La proposta tuttavia è stata ritirata nel maggio 2019 e, peraltro, non sarebbe intervenuta sui diversi rimborsi spese percepiti dai parlamentari italiani.

Venendo ad ulteriori proposte di taglio dei costi del parlamento, in base ad uno studio elaborato in fase di discussione della modifica della Carta, è possibile giungere al medesimo risparmio di spesa che consegue naturalmente alla riforma costituzionale – ossia 57 milioni di euro annui – a Costituzione invariata. In particolare si possono ridurre almeno tre voci di spesa, che comprendono sia i costi di funzionamento delle due camere, sia il trattamento economico dei parlamentari.

Per quanto riguarda i primi, se si guarda ai rendiconti di Camera e Senato del 2019, sono stati impegnati quasi 146 milioni di euro fra acquisti di beni e servizi e spese di rappresentanza. Cifre eccessive se comparate con quelle della Francia, che ha due camere e 965 parlamentari, ma ha impegnato 65 milioni di euro di spesa per le stesse causali. Come proposto dallo studio citato, è possibile ridurre la spesa anche solo di un terzo della differenza fra i costi del parlamento italiano e di quello francese perché si abbia un risparmio di 27 milioni di euro.

Un’ulteriore voce di spesa oggetto di un possibile taglio è quella dei contributi ai gruppi parlamentari. Bisogna considerare che, sulla base dei regolamenti delle due camere, i gruppi percepiscono un finanziamento per le “attività istituzionali”. Esso costituisce anche una forma di sovvenzione indiretta ai relativi partiti, che non ricevono più i rimborsi elettorali, aboliti durante il governo Letta. Attualmente, fra Camera e Senato, i contributi ammontano a più di 50 milioni di euro annui. Per questa voce di spesa viene proposta una riduzione del 10%, ossia un taglio di poco più di 5 milioni di euro.

Dulcis in fundo, si potrebbe intervenire sull’entità delle indennità e dei rimborsi spese di deputati e senatori. Fra questi ultimi, i più consistenti sono la diaria, che permette ai parlamentari di soggiornare a Roma e così presenziare alle sedute, e che ammonta mensilmente a 3.500 euro, ed il rimborso per l’esercizio del mandato, per il quale si assiste ad una scollatura tra le due camere nell’importo: i deputati percepiscono 3.690 euro mentre i senatori 4.180 euro mensili. Considerando che fra indennità e rimborsi spese i parlamentari percepiscono fra i 13.500 e i 14 mila euro netti, anche un taglio di 2.200 euro potrebbe fare la differenza, per un risparmio complessivo di 25 milioni di euro. Il trattamento economico rimarrebbe più che dignitoso, se si considera che il parametro stipendiale dei parlamentari italiani è quanto percepito dai presidenti di sezione della Corte di cassazione, che guadagnano tra i 6 mila e gli 8 mila euro mensili.

Sembra dunque possibile un taglio dei costi del parlamento senza un taglio della rappresentatività: le cifre dello studio preso in considerazione, sommate, portano al medesimo risparmio che si prefigge la riforma costituzionale. Ad ogni modo, a prescindere dall’esito del voto di domenica e lunedì, i cittadini italiani sono sempre pronti ad una spending review della macchina parlamentare. Magari, la prossima volta, senza dover scomodare la Costituzione.

Raffaella Tallarico

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