«Sono di Napoli. Una città che lascia parlare talmente tanto, che basta pronunciarne il nome per emanciparsi da ogni tipo di risposta. Un luogo dove il male diviene tutto il male, e il bene tutto il bene».

Ad oggi, forse in molti ci chiederemo: la Napoli che tinge di nero la cronaca degli ultimi giorni è la Napoli che Gomorra ha contribuito a dipingere? O è l’anima della città ad aver dato vita ad una delle serie più amate e discusse di sempre? In che misura Ciro l’Immortale, Genny Savastano e il loro entourage hanno involontariamente plasmato il nostro contesto sociale? Quanto hanno dei loro idoli questi ragazzini armati di pistole e coltelli che scendono in strada per ammazzare?

Il 18 dicembre è toccato ad Arturo, il 17enne colpito con venti coltellate mirate agli organi vitali, in via Foria. Poi ancora è stato il turno di Gaetano, 15enne pestato da un branco di 15 ragazzini che gli hanno distrutto la milza, mentre aspettava l’autobus davanti alla metropolitana di Chiaiano. Per poi arrivare a Pomigliano d’Arco, quando due ragazzini di 14 e 15 anni sono stati pestati da una banda di 10 minorenni che, armati di catene, intendevano rubare loro lo smartphone. Episodi che colpiscono non soltanto per la loro violenza, tanto brutale quanto ingiustificata, ma anche per la rapida progressione con la quale si sono succeduti: sette casi in due mesi, una situazione che ha provocato il lancio dell’allarme baby gang a Napoli. Una situazione di disordine confuso e crescente, che è esploso nella notte di mercoledì 17 gennaio, quando in occasione dei falò di Sant’Antonio, giovanissimi (e non solo) hanno appiccato roghi in diversi punti della città con l’obiettivo di creare tensione. Scontri con la polizia, agenti feriti, palazzi abbandonati che diventano roccaforti delle baby gang, aggressioni ai senzatetto, lanci di sassi e bottiglie.

Una costellazione di immagini da brivido, un panorama triste che ricorda tanto quello che abbiamo visto esplodere sugli schermi di 170 paesi del mondo, il prodotto televisivo italiano di maggior successo nella storia: il fenomeno Gomorra. L’occhio della macchina da presa ha puntato la sua luce sulle vicende di stampo camorristico di una Napoli intrisa di sangue, in cui vige una sola legge: la violenza. E se fosse possibile definire un fenomeno mediatico come Gomorra, necessario sarebbe sottolineare la potenza con cui si insinua nel sostrato di chi lo guarda e ancor più di chi quella realtà la vive, la sente propria quanto mai e vede per la prima volta una luce illuminare il degrado e lo scenario della morte di cui è parte integrante. E se da una parte costringono la coscienza sociale e civile ad aprire gli occhi, dall’altra, Genny, Sangue Blu, Chanel assurgono al ruolo di idoli, di modelli fondanti da parte di chi quella coscienza sociale e civile non ce l’ha e forse non potrà mai averla, se l’unica istituzione che conosce e a cui devolve rispetto è la camorra.

E così, a immagine e somiglianza dei modelli sopracitati, con tute e cappucci neri, a bordo degli scooter e rigorosamente senza casco, agitano la pistola e conquistano quello che incontrano durante il tragitto, sbattendogli in faccia l’unica arma su cui sanno di poter contare: la paura. Ma Gomorra non è la vita e, soprattutto, la vita non è Gomorra. Non ci sono morti fittizie, non esistono seconde possibilità o miracoli da film. Esistono ragazzi poco più che bambini armati, che non hanno paura di fare del male a chi è giudicato più debole solo perché sprovvisto di un’arma, che si divertono a seminare terrore, che confondono il potere con il sangue, che vengono giudicati incapaci di subire una pena mentre nella concretezza dei fatti si sentono pronti a premere un grilletto.

La colpa è di Gomorra? Sarebbe un capro espiatorio ideale. Ma forse, a voler essere onesti, la sola colpa della serie tv è quella di aver messo in luce una realtà, la nostra. Una realtà che appare tale nell’assoluta assenza delle istituzioni, con annessa la possibilità di fare tutto senza freni e senza scrupoli, nell’anarchia delle quattro mura di un quartiere dimenticato da tutti e abbandonato a se stesso. Una realtà in cui è la camorra il gradino più alto del potere, con i suoi ricatti, le sue compravendite, le sue sopraffazioni, tutte all’insegna di un minimo comun denominatore: la morte.

Gomorra è la storia di chi ha fatto della morte la colonna portante della vita: tutti tradiscono tutti, tutti sparano per divertimento o per autoaffermazione, tutti uccidono, tutti muoiono.

«È la storia di una guerra permanente dove nessuno è mai sicuro di poter sopravvivere, anche se nell’ambito dei clan sei una figura di rilievo, o se apparentemente sei un ‘vincitore’. Non puoi mai sapere se il tuo boss ti manda a morire per una stupidaggine, non sai se puoi fidarti del tuo migliore amico perché la caratteristica delle situazioni di guerra è proprio l’assoluta incertezza. Ed è quella che noi vogliamo trasmettere. È connaturata al mondo che andiamo a raccontare».  (Leonardo Fasoli – story editor di Gomorra)

Gomorra non dipinge eroi, non promette un avvenire roseo a chi combatte la guerra contro quel nemico invisibile che è lo Stato. In Gomorra non esistono buoni e cattivi, non c’è dualismo: tutto è nelle mani di quelli che comandano le cose, con macchine nuove, ville maestose che immediatamente si trasformano in catapecchie fatiscenti, con mogli che a volte aspettano e soffrono, a volte tradiscono e scappano, con figli che muoiono nell’innocenza o che finiscono preda dello stesso avvoltoio che ha lentamente divorato i padri: il Sistema.

È una verità indubbiamente dura, quella in cui non appaiono mai figure istituzionali capaci di dettare ordine e giustizia. Eppure è, da anni o forse più, la realtà di tanti quartieri di Napoli: Gomorra l’ha resa famosa e adesso tutti ci puntano gli occhi addosso. Possiamo forse pensare che sia un male? Un danno di immagine?

No, se la nostra immagine ad oggi è anche questa. Caos e violenza, certo, ma anche l’accenno di un’alba nuova, perché adesso c’è qualcuno che di noi vuole parlare e lo fa, in televisione, sui giornali. C’è chi combatte la violenza e la paura con le armi della parola e del coraggio, c’è chi lancia una sfida all’omertà che indirettamente colpisce chi dell’omertà ha fatto la base edificante del potere. Oggi questa voce è quella della mamma di Arturo, Maria Luisa Iavarone, instancabile e imperterrita dinanzi alle continue minacce di chi vorrebbe metterla a tacere.

«Stanno cercando di non farmi parlare troppo ma voglio che sappiano che non ho paura e non mi fermeranno. Quello che è stato fatto a mio figlio non posso dimenticarlo e ora voglio e pretendo giustizia. Non solo per lui ma anche per tutti i bravi ragazzi di questa città che abbiamo il dovere di proteggere».

La voce di una mamma arrabbiata e delusa che diventa la voce della Napoli che non chiude le finestre, che non spegne la luce, che non porge l’altra guancia. Una Napoli che sfiora la camorra, ma non gli stringe la mano. Esiste e oggi, quando probabilmente per tutti siamo la Napoli di Gomorra, ha il coraggio di dissentire, di uscire allo scoperto, di chiedere aiuto, di gridare l’onestà in nome del bene che, invano, hanno cercato di soffocare.

E nessuno può più fingere che non esistiamo. 

Sonia Zeno

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