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Foto di Isabella Quintana, da Pixabay

L’emergenza COVID-19 ha segnato un solco tra gli scenari passati e futuri anche in materia di violenza di genere. Cosa sta succedendo nei centri antiviolenza? Ne abbiamo parlato con Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza, che lo scorso 8 marzo ha lanciato la campagna “In che Stato siamo?” e la più recente raccolta fondiLibere dalla violenza“.

D.i.Re è la più grande rete nazionale di centri antiviolenza gestiti da organizzazioni di donne. Quali sono le Regioni italiane in cui si riscontrano le maggiori difficoltà? Può presentarci alcuni esempi?

«D.i.Re riunisce attualmente 80 organizzazioni presenti in 18 regioni, anche se il numero dei centri è variabile, dai 17 centri in Lombardia a 1 centro solo, ad esempio, nelle Marche o in Basilicata. E anche i centri antiviolenza sono diversi tra loro. Nella maggior parte il lavoro volontario di operatrici, formate ad hoc con corsi annuali o biennali, è parte importante della sostenibilità, al fine di non far venire mai meno il supporto alle donne, perché non per tutti i centri è possibile assumere tutte le operatrici a causa della carenza di fondi e dei gravi ritardi e della scarsa prevedibilità dei finanziamenti pubblici». 

L’approccio dei centri antiviolenza si basa su alcuni concetti chiave, da “io ti credo” a “di cosa hai bisogno?“, che permettono l’instaurazione di un dialogo e di un percorso fatto di comprensione e consapevolezza, accompagnando le vittime fino all’autonomia, anche attraverso progetti che ne garantiscano l’emancipazione economica e professionale.

Violenza di genere, D.I.Re, Italia

Sul versante del dialogo tra i centri antiviolenza e le Regioni italiane, grande spazio viene dato al tema dei finanziamenti. A partire dalla sua esperienza, quali complicazioni rischiano di compromettere l’operato dei centri?

«Come abbiamo avuto modo di segnalare molto spesso, nonostante il “Piano nazionale antiviolenza” istituito nel 2013 con la legge 119 e la successiva Intesa Stato-Regioni del 2014, che hanno definito i criteri e i servizi che le strutture – che si dicono centri antiviolenza – devono rispettare al fine di ottenere i fondi pubblici, riscontriamo ancora molte disparità nel funzionamento delle Regioni.
Alcune, come la Calabria, la Sicilia o la Campania sono in grave ritardo sia con l’erogazione dei fondi, sia con la rendicontazione allo Stato dei fondi distribuiti. La situazione che ci preoccupa di più è, però, quella della Lombardia, che accredita i fondi solo per i servizi di supporto psicologico e legale e soltanto ai centri antiviolenza che hanno accettato di fornire il codice fiscale delle donne, mentre l’anonimato dei dati è uno dei pilastri essenziali del nostro lavoro anche a tutela della sicurezza delle donne che accogliamo, così come viene raccomandato dalla Convenzione di Istanbul». 

L’uguaglianza di genere è tra le priorità globali da raggiungere entro il 2030. Quali sono i passi strategici da compiere? In quale direzione l’Italia, in primis, dovrebbe agire?

«Le cose da fare sono moltissime: anche la pandemia COVID-19, che pure ha visto tante donne impegnate sul fronte dell’emergenza, si è poi tradotta in una task force di esperti per gestire la fase di ripresa in cui l’80% sono uomini, segno che il potere decisionale continua a essere impermeabile ai cambiamenti che stanno avvenendo nella società, dove già le laureate sono più dei laureati, le donne vincono in massa i concorsi della magistratura, il virus in Italia è stato isolato da un team di ricercatrici, tanto per fare degli esempi.
Certo, il primo passo, dal nostro punto di vista, sarebbe dare piena attuazione alla Convenzione di Istanbul, che l’Italia ha ratificato nel 2013 ed è entrata in vigore un anno dopo. Tra il 2018 e il 2019, D.i.Re è stata parte attiva del monitoraggio della sua applicazione in Italia: condotto dal GREVIO, il Gruppo di Esperte sulla Violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, ha inglobato i risultati sia del Rapporto Ombra, inviato al GREVIO a ottobre 2018, sia della visita di monitoraggio condotta dalle esperte nel 2019.

Attuare la Convenzione di Istanbul significa affrontare finalmente la violenza contro le donne, con un approccio di sistema e non come emergenza, che affiora di tanto in tanto – o peggio – come tema su cui costruire la propria visibilità politica, come nel caso del Codice Rosso, approvato di corsa dal governo precedente, che prevede, sì, la formazione di chi opera sulla violenza, in particolare delle forze dell’ordine, ma non sono previste risorse finanziarie per realizzarla. E dunque resterà lettera morta». 

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Monitoraggio contatti durante l’emergenza COVID19. Versione integrale qui

Il lockdown ha aggravato le condizioni di molte donne. Quali sono le stime dei nuovi casi di violenza?

«Sono in tutto 2867 le donne che si sono rivolte ai nostri centri antiviolenza tra il 2 marzo e il 5 aprile, con un incremento, rispetto alla media mensile del 2018, del 74,5%. Di queste però solo il 28% sono state richieste di donne che si rivolgevano per la prima volta a un centro D.i.Re, mentre nel 2018, sul totale delle donne accolte, ben il 78% aveva richiesto supporto per la prima volta nell’arco dell’anno.

Questo conferma, senz’altro, che le donne già seguite dai centri antiviolenza – ma non ancora fuori da una relazione maltrattante e, dunque, costrette a passare la quarantena in casa con il partner – hanno visto aggravarsi la propria condizione. E anche che, per molte donne, è stato difficile immaginare di potersi rivolgere ai centri antiviolenza, perché evidentemente convinte che ‘tutto fosse chiuso’. È stata necessaria una massiccia campagna sui social con un breve video per indicare quando chiamare in sicurezza e dove reperire i numeri dei centri antiviolenza D.i.Re. Altra cosa da segnalare, è che solo il 3,5% di queste richieste ci sono pervenute tramite il 1522, il numero di pubblica utilità antiviolenza».

Secondo il suo punto di vista, cosa è mancato all’interno dei vari DPCM del Governo?

«I vari DCPM non hanno mai fatto menzione dei centri antiviolenza tra le strutture che dovevano chiudere, considerandoli evidentemente servizi essenziali che, giustamente, non dovevano venire meno. Nel contempo, però, non sono stati forniti, se non in alcune regioni e molto dopo il lockdown, i presidi sanitari, a cominciare dalle mascherine, per consentire alle operatrici di assistere le donne in sicurezza. Le case rifugio non sono state considerate in alcun modo, pur essendo tutte aperte, funzionanti e spesso piene di donne e bambini/e. La sanificazione degli ambienti è rimasta a carico dei centri, come pure nella maggior parte dei casi, l’affitto di alloggi alternativi alla casa rifugio nel periodo di quarantena.

Non ha funzionato nemmeno la circolare del Ministero dell’Interno che indicava la possibilità di usufruire di alloggi, in particolare stanze d’albergo, sia perché in molte Prefetture mancavano referenti per gestire le richieste, sia perché tali soluzioni, dove bisogna registrarsi con nome e cognome, non permettono di rispettare l’anonimato, e dunque potevano mettere potenzialmente a rischio le donne.

La ministra per le Pari opportunità, il 2 aprile, ha annunciato lo sblocco dei finanziamenti del Piano nazionale antiviolenza del 2019, destinando una parte di questi – 10 milioni, sui 30 milioni totali – all’emergenza Covid. Ma tali fondi sono stati di fatto sottratti alle altre ‘attività collaterali’ previste dal Piano nazionale antiviolenza, a cui erano destinati. Questi fondi non sono, come avevamo richiesto, fondi straordinari gestiti direttamente dal DPO, bensì fondi ordinari, già destinati per legge ai centri antiviolenza, che devono ora comunque transitare attraverso le Regioni. E qui torniamo alle criticità di cui sopra: ogni Regione ha criteri diversi con cui eroga le risorse, e nessuna comunque finora ha predisposto nulla. Anche i 3 milioni aggiuntivi inclusi nel Decreto “Cura Italia” sono poca cosa rispetto al fabbisogno, e ancora non è stato definito il meccanismo di erogazione.

Antonella Veltri, presidente di D.i.Re

Ora che si avvicina la fine del lockdown, non c’è alcun accenno a una pianificazione per gestire un possibile picco di richieste di supporto da parte di donne che hanno resistito nelle relazioni violente durante la quarantena, ma che, finita l’emergenza, potrebbero rivolgersi in massa ai centri antiviolenza per avere supporto. Una situazione del genere è stata segnalata in Cina, dove le richieste di divorzio alla fine della quarantena hanno subito un’impennata.

La violenza contro le donne purtroppo è un fenomeno che va ben al di là dell’emergenza Coronavirus, succede 365 giorni all’anno, per questo invitiamo tutte/i a sostenere i centri antiviolenza con una donazione!».

Con il presente articolo, Libero Pensiero avvia un percorso al fianco di D.i.Re, per approfondire i temi legati alla violenza di genere in Italia.

Sara C. Santoriello

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