(Parte 2)
Se l’adozione è un evento “puntuale” segnato dal giorno in cui avviene il primo incontro con il figlio da adottare, la costruzione del legame adottivo si delinea come un processo che si snoda nel tempo (Scabini, Cigoli, 2000).
Infatti tutti i giocatori in campo (genitori, figlio adottivo e rispettive famiglie) hanno bisogno di creare e di trovare il giusto equilibrio mescolando ognuno i propri sogni, bisogni ed aspettative.
Il patto adottivo si basa su una reciprocità di doni: se è vero da un lato che moglie e marito offrono accudimento e protezione, il bambino permette ai genitori stessi una continuità nella discendenza e la concretizzazione vera e propria di diventare genitori.
Il figlio adottivo, spesso, si sente ripudiato dalla sua famiglia biologica originaria e continua a chiedersi perché sia stato rifiutato, accompagnando questa domanda da sentimenti di colpa e dal pensiero di non essere all’altezza delle aspettative dei suoi genitori biologici.
Allo stato di abbandono reale che può esser stato vissuto, si aggiungono spesso anche delle relazioni adottive in cui i genitori, da loro stessi o dallo stesso adottato, sono dipinti come supereroi in grado di aver salvato il bambino da un futuro certo di sciagura. Questo genera una infinita gratitudine del figlio verso i nuovi mamma e papà.
I bambini hanno bisogno di esplorare le loro origini, perché è nella certezza delle loro origini che essi possono crescere.
Per questo motivo è indispensabile che la comunicazione di essere figlio adottivo venga effettuata già in tenera età. Tacendo le informazioni sull’adozione si alimenta sempre più il “segreto” che non permette di creare spazi di scambio e di confronto tra genitori e figlio.
Riguardo la doppia appartenenza dell’adottato, le famiglie adottive oscillano su un continuum che va dalla negazione alla marcatura della differenza.
La negazione è quella che mantiene in vita le aree segrete, “assimilando il figlio adottivo a quello biologico e tacitando tutto ciò che in qualche modo richiama le differenze d’origine” (Cigoli, Scabini, 2000), perché dolorose. La coppia che enfatizza la differenza invece, concepisce il figlio come “esterno” e i suoi atteggiamenti “disubbidienti” vengono legati alle sue origini diverse.
Solo attraverso un patto di riconoscimento e di valorizzazione delle differenze (Cigoli e Scabini, 2000) il figlio adottato diventerà un figlio, capace di portare avanti i valori e i credo della famiglia, arricchendo tutti i partecipanti della propria diversità.
A cura della Dott.ssa Gioia Giordano
per il portale Psicodialogando