Greta Thunberg, il climate change e i gretini

Cari lettori,

nonostante per consuetudine, quando si è giunti a Natale e alla fine dell’anno, si raccolgano i buoni propositi e i buoni sentimenti per non rischiare che avanzino – come per rastrellare le briciole di umanità dal tavolo delle infamie per sentirci più degni di esser vivi – questa volta è forse il caso di fare un’eccezione.

Certo, il clima festivo potrebbe indurci alle solite allucinazioni collettive; potrebbe farci credere che in fondo essere buoni sia giusto, sia un atto doveroso, proprio come fare la pipì quando la vescica è sul punto di scoppiare. Ma il Natale non è un atto fisiologico e la bontà frivola con cui si adorna l’abitudine non è una dialisi per le scorie accumulate dalla coscienza.

Potrei affidarmi alla solita, stanca retorica dell’accoglienza. Potrei dedicare queste righe ai trecento esseri umani a bordo della Open Arms che il ministro dell’Inferno Salvini vuole tenere ad ogni costo lontano dall’Italia. Avrei gioco facilissimo con le metafore sul presepe, la nascita del Bambin Gesù e le palle (intese come menzogne) sull’albero del piccolo (inteso come essere umano) Matteo.

Non lo farò.

Non è una metafora che mi interessa. Non è a un credo religioso che voglio ispirarmi, a poche ore dalla venuta del Cristo in mezzo ai demoni. Il volto che ho in mente è quello di un vero Messia: ha labbra serrate in un enigma leonardesco, i contorni spigolosi della fredda natura scandinava, lo sguardo perforante di chi ha visto oltre, di chi ha già visto tutto. È il volto di una fanciulla svedese di neppure 16 anni, il cui nome è Greta Thunberg, venuta a salvarci dalla fine del mondo.

Per chi non la conoscesse, Greta Thunberg ha iniziato a interessarsi al cambiamento climatico all’età di 8 anni, e a 11 è caduta in depressione a causa della percezione che non se ne parlasse abbastanza, che non si facesse nulla al riguardo. Poi, lo scorso agosto, ha iniziato il suo “Climate Strike”, uno sciopero dalla scuola per andare a protestare di fronte al Parlamento svedese per le politiche energetiche e ambientali.

Greta Thunberg è oggi d’ispirazione per migliaia di ragazzi in tutta Europa, che seguendo il suo esempio organizzano decine di manifestazioni per sensibilizzare governi, stampa ed opinione pubblica sui rischi del cambiamento climatico, e per invitare all’azione coloro che detengono le sorti del pianeta fra le loro mani viscide e grassocce.

Perché studiare per un futuro che forse non arriverà mai?, si chiede Greta, e la sua domanda, così legittimamente naturale, così pervicacemente perfetta, è la sintesi essenziale di una politica che non è in grado di dare risposte perché ha smesso di esistere. Il suo messaggio è rivolto ai “potenti”, ma coinvolge tutti, perché è destinato a tutti. Si sa, le lettere che riportano un indirizzo sbagliato tornano indietro; le parole di Greta invece viaggiano con l’indirizzo esatto: il Pianeta Terra. E perciò arrivano a tutti.

Non è più la speranza che ci occorre, ma l’azione, dice. Avviata l’azione, la speranza arriverà da sola, dice. C’è una forza nel suo tono, che sembra timido e dimesso, una potenza nel suo linguaggio che travalica ogni concetto di “rivoluzione” scolpito fino ad oggi. Greta è il rovesciamento dei canoni, la sovversione degli stereotipi, l’abbandono definitivo di un modello consacrato sull’altare della storia. Ci sono gli uomini forti, gli eroi che da soli s’innalzano, statuari, a fronteggiare il male; e poi c’è questa ragazzina svedese di nemmeno sedici anni, al secolo Greta Thunberg, affetta dalla sindrome di Asperger, che prende parola alla Cop24 sul clima e proferisce: “Se le soluzioni all’interno del sistema sono impossibili da trovare, forse dobbiamo cambiare il sistema stesso”.

Un semplice punto non basta ad arginare la dirompenza di questa affermazione. Non so se ce ne rendiamo conto. Greta Thunberg afferma, con la sua semplicità disarmante, che bisogna mettere in discussione l’intero sistema, ovvero quel capitalismo pregno di avidità e miopia che ci ha condotti sull’orlo del baratro. E di colpo il nuovo Vangelo si manifesta al nostro orecchio, mostrando anche in questo caso la sua totale, definitiva discontinuità. Per raccontare la Verità non occorrono cravatte di seta e orologi d’oro, né cellulari di ultima generazione: bastano due trecce, un camicione a quadri e una Verità da raccontare.

Greta Thunberg è questo, il Messia che ritorna per avvertirci di lasciar perdere pandori e panettoni, di scappare dalle lusinghe dell’agio e del benessere per contribuire alla salvezza dell’unico valore in nostro possesso: la speranza nel futuro. Un tempo che i governanti ci stanno sottraendo con le loro vane promesse e vane farneticazioni. E che sia una giovanissima studentessa a farcelo comprendere, anziché uno dei tanti pseudomartiri della rivoluzione con migliaia di voti, il megafono davanti alla bocca e il blocco alle maiuscole sul cellulare è così disgustosamente poetico da non poter essere che la cosa giusta.

Viviamo nel peggiore dei momenti possibili, mentre la sabbia che fluisce verso il basso nella clessidra si avvicina inesorabilmente a terminare e nel pianeta avanzano gli egoismi, le paure e la violenza: uno scenario tipico della fine del mondo. Così si spiegano i Trump che negano il cambiamento climatico, i Bolsonaro che mettono l’Amazzonia all’asta e i tanti lacché del nazionalismo più ottuso e sfacciato che strizzano loro l’occhio annebbiato dalla stupidità e dall’arroganza.

La storia li ricorderà per quello che sono: un ammasso di lerciume che avremmo fatto meglio a gettare nella spazzatura senza possibilità di riciclarli – loro no, in nessun modo. Sono invece felice di aver potuto raccontare un’altra storia, nell’ultima puntata di una rubrica iniziata ormai cinque anni fa, il 6 marzo 2014 con questo articolo, e che si conclude oggi, con il brainch di Natale, la meravigliosa rabbia di Greta Thunberg e il suo salvifico messaggio dalla fine del mondo. Ascoltiamola, non lasciamo che anche lei finisca sulla croce, sulla nostra croce.

Buone feste, lettori cari, e grazie per la vostra compagnia durante questi anni. Grazie di cuore, e a presto rileggerci.

Emanuele Tanzilli

1 commento

  1. È imbarazzante far parte di tutto questo.
    Tutti viviamo in uno stato di sofferenza permanente che si manifesta dentro e fuori di noi indistintamente da razza, sesso ed età.
    Viviamo accogliendo quotidianamente nuove forme di malattie sperando e confidando nelle nuove tecnologie farmacologiche e terapeutiche.
    Questo è il progresso?
    Siamo vissuti dagli eventi.
    Non abbiamo ideali se non quelli che ci sono stati abilmente insegnati fin dalla più tenera età.
    Crediamo fondamentalmente anche se non in maniera cosciente nella sopravvivenza.
    Vivere è un altra cosa.
    Il disagio più grande è comprendere di essere nati per sopravvivere.
    Ma essendo tutti cosi palesemente artefici di questa realtà surreale qualche carta possiamo ancora giocarla.
    Non basta ringraziare questa giovane ragazza,bisogna cambiare in maniera attiva,siamo tutti uguali ma tutti diversi,la nostra singolarità ed individualità è la nostra forza anche se non lo sappiamo.

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