Nostalgia: il segreto per sopravvivere all'isolamento è dentro ognuno di noi
Fonte: Pixabay

Le misure di distanziamento sociale sono in vigore ormai da più di un mese e l’isolamento sembra essersi trasformato in un asettico stato di limbo in cui i giorni, le ore, i pensieri stessi si confondono e la nostalgia, spalmata sulle mura di casa, sui cibi che mangiamo e sui libri che leggiamo, è l’ombra lunga e inevitabile delle nostre riflessioni.

Nostalgia, ovvero: dolore del ritorno. Il JAMA (The Journal of the American Medical Association) ha stimato che proprio il distanziamento sociale – più che la pandemia stessa e le sue conseguenze sulla salute umana – è la corretta chiave di interpretazione delle conseguenze che l’emergenza Covid-19 avrà sulla salute mentale dell’uomo. Infatti, a differenza di quanto registrato in passato in occasione di altre epidemie, di disastri naturali o di attentati, il senso di solitudine rischia di generare delle conseguenze psicologiche ben più importanti di quelle determinate dalla paura del contagio.

Sembrerebbe, allora, che l’isolamento sociale sia la criptonite dello zoon politikòn di aristotelica memoria, dell’uomo inteso come animale per natura “politico”, e dunque “socievole” e “comunitario” che ha bisogno del confronto con l’altro per definire se stesso. Per di più gli psicologi spiegano che tale sacrificio, forse più sopportabile in altri periodi storici, è particolarmente difficile nella società individualista ed egoista del ventunesimo secolo. L’uomo è stato chiamato a concepire l’isolamento come atto estremo di altruismo, ovvero a sacrificare la propria libertà individuale non solo per se stesso, ma soprattutto per il bene superiore della collettività. Un appello, questo, che si è inizialmente mostrato debole in un Paese, come l’Italia, in cui “collettività” è spesso più un concetto che una dimensione dell’essere, un’idea rarefatta, svilita e schiacciata dalla logica egoistica dell’“homo homini lupus”.

E se è vero che la pandemia ha avuto l’accortezza di raggiungerci in un periodo storico in cui internet la fa da padrone e le relazioni sono social più che sociali, va anche detto che colmare la distanza fisica non significa necessariamente colmare anche quella relazionale. Come dire, in soldoni, che la vista e l’udito non sono che due dei nostri cinque sensi e che l’immaginazione, per quanto sollecitata in maniera del tutto inconsueta nel corso di queste settimane, non può sopperire agli stimoli che il nostro cervello riceve durante un abbraccio. Ed è a questo punto, quando diventa dolorosamente evidente che volere non è potere, che emerge la nostalgia, sentimento preponderante nella sintomatologia della quarantena.

Ed eccoci, telefono alla mano, proviamo a consolarci con le infinite possibilità del virtuale. Neanche a dirlo, le videochiamate diventano in questi giorni sempre più lunghe e sempre più affollate, un live streaming senza soluzione di continuità sulle nostre nuove vite da animali domestici. E se prima della quarantena sfoderavamo gli auricolari come un sicuro meccanismo di isolamento dal contesto circostante, adesso avviamo un Netflix Party per fingerci sul divano insieme ai nostri amici mentre guardiamo una puntata della serie che avevamo iniziato insieme a loro. Intanto, ad ogni ora del giorno impazzano le dirette su Instagram, ad attestare che il bisogno di essere live – che qui tradurremmo alla lettera, come “bisogno di essere vivo” – è divenuto ormai più forte della tendenza ad apparire perfetti, ed anche le celebrities accettano di mostrarsi in tuta e con la coda di cavallo ai followers affamati di interazione.

Ma il digitale è una prossimità che fa solo il verso alla vicinanza

A videochiamata finita, la nostalgia è forse più forte di prima. Questo perché abbiamo sempre più bisogno di veri volti, della pelle resa tesa e stanca dalla sofferenza e dalla preoccupazione; abbiamo bisogno di voci non metalliche ma melodiose, modulate in canti urlati al megafono del balcone; abbiamo bisogno di radici, di connessioni reali che ci ricordino chi siamo, per cosa e per chi stiamo lottando, per la tradizione millenaria del tricolore che attacchiamo e vituperiamo ad ogni occasione, ma che in fondo sappiamo essere l’unica Patria possibile. Non c’è trucco, non c’è inganno: la psicologia ci dice che la nostalgia – di cui tanto abbiamo paura per la sua capacità di farci sentire improvvisamente miseri – lungi dall’essere una forma di tristezza, è una risorsa esistenziale che ci rende più forti. Sembrerebbe, infatti, che chi ha nostalgia sperimenti una spinta a (ri)attribuire significato alla propria esistenza; una condizione, questa, che mette in moto meccanismi di ricerca del contatto sociale e di potenziamento del benessere individuale. La scienza ci sta dicendo, dunque, che la nostalgia che sperimentiamo durante queste settimane di isolamento ci sprona in realtà a migliorarci e a potenziare i nostri sentimenti di empatia ed altruismo.

Il coronavirus ci ha forse dato una lezione di umanità?

Al di là di qualunque forma di fatalismo che possa vedere in questa pandemia una punizione per la tracotanza dell’uomo, possiamo affermare con una certa sicurezza che l’isolamento ha determinato un riavvicinamento al prossimo. Messi da parte gli egoismi individuali, abbiamo imparato a sentirci piccoli ingranaggi di un meccanismo più grande che ha bisogno di noi per funzionare. Abbiamo riscoperto la generosità nel periodo peggiore che l’economia ricordi dal secondo dopoguerra, e abbiamo iniziato ad aiutare perché ci va e perché è giusto farlo. Ma soprattutto, abbiamo ridefinito il nostro modo di vivere le relazioni, scoprendoci in empatia con l’anziano vicino che non può fare la spesa, con chi ha perso il lavoro, con il personale sanitario che combatte in trincea, con le famiglie di chi non ce l’ha fatta.

Esopo era solito concludere i suoi racconti con la formula “La favola insegna che…”. L’isolamento è tutt’altro che una favola, ma sembra proprio che una morale ce l’abbia. A ognuno la libertà di interpretarla.

Roberta Cammarota

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