Dopo aver elencato la scorsa settimana le principali strade che si stanno battendo in Italia per contrastare il fenomeno delle fake news, passiamo ad analizzarne la fattibilità. Pitruzzella e Grillo propongono due distinti tribunali del web, l’uno collegato ad altri centri in tutta Europa, e l’altro formato da cittadini comuni agenti da giudici. Boldrini ha lanciato l’appello Basta Bufale, e Gambaro (ALA-Scelta Civica) ha proposto pene più dure per chi si rende protagonista di “campagne d’odio”.

UN TRIBUNALE IMPOSSIBILE

Un qualsiasi tribunale del web (nazionale o europeo) sarebbe alquanto impossibilitato ad agire, poiché innanzitutto non potrebbe mai gestire la mole di casi di cui si parla. In secondo luogo, anche se il verdetto sulla veridicità di una notizia dovesse infine arrivare, questo non muterebbe di una virgola il clima d’opinione ormai irrimediabilmente compromesso dalla bufala.

Se poi il vero fine di queste azioni legali contro i diffusori di bufale fosse un risarcimento economico, e quindi il punire con sanzioni economiche o con la reclusione i trasgressori di un’eventuale legge, il problema sarebbe comunque di difficile risoluzione: si potrebbe infatti conformare la normativa vigente per i reati a mezzo stampa alle attività on line, considerando come produttori di informazione non solo le testate giornalistiche registrate, ma anche ad esempio pagine Facebook con un determinato numero di seguaci, siti sedicenti di informazione non registrati, account Twitter con un determinato numero di follower. Se è la viralità che si vuole combattere, bisogna accettare un cambio di paradigma che preveda una nuova considerazione specifica del soggetto, per cui ci sarebbero account punibili ed altri non punibili, a seconda del raggio di diffusione della notizia. Ciò fino all’estrema conseguenza di privilegiare una considerazione della situazione anziché dei soggetti interessati, ovvero prendere in esame solo casi per i quali le news hanno raggiunto un determinato numero di utenti.

Come li raggiungano, poi, sarebbe comunque materia di discussione. Immaginate il link a una bufala condiviso da una pagina Facebook, ed immaginate poi che questo link venga ricondiviso da un’altra pagina Facebook, che ha un bacino d’utenza notevolmente maggiore della prima, di chi sarebbe la colpa? Di entrambe? Solo del sito che ospita la falsa notizia linkata? E si può dimostrare che quel sito fosse consapevole, al momento della pubblicazione della bufala, che questa sarebbe stata condivisa da determinate pagine Facebook? E immaginate che questa notizia venga ricondivisa dallo stesso soggetto del quale la fake news racconta false nefandezze, allo scopo di mettere alla berlina i produttori di fake news. Come ci si dovrebbe comportare? Un numero virtualmente infinito di utenti potrebbe contribuire (anche involontariamente) a far crescere l’audience di una bufala, e il produttore di bufale potrebbe sempre difendersi dicendo di aver raggiunto involontariamente un ragguardevole numero di lettori.
Non aveva tutti i torti Beppe Grillo quando definì le concezioni di Pitruzzella come «a metà strada tra il delirio d’onnipotenza e l’ignoranza completa di come funzioni il web».

AGIRE TRAMITE I SOCIAL NETWORK

Comunque, il produttore iniziale della bufala potrebbe venire incriminato quantomeno di comportamento colposo, ma come chiarito sopra, la sensazione è che chi in questi giorni si sta scagliando contro le fake news non lo stia facendo per poter essere risarcito economicamente o moralmente, magari a mesi di distanza dalla pubblicazione della bufala.
Chi si sta battendo contro le fake news si pone come obiettivo principale il contrasto delle manipolazioni dell’opinione pubblica, un qualcosa di incontrastabile, perché l’opinione pubblica è per sua natura fatta da una molteplicità di soggetti, e per sua natura cambia continuamente.
Per Arianna Ciccone, ideatrice e organizzatrice del Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia, in realtà chi si batte contro le fake news, additandole come il motivo di vittorie a sorpresa come quella di Donald Trump, sta cercando di istituire ciò che a chi detiene il potere non è mai riuscito dalla nascita dell’informazione libera, «Un bel Tribunale della Verità che dice a noi cittadini scemi cosa è vero e cosa no, magari con bollino qualità certificato dallo Stato».

Una fake news, come qualsiasi news on line, ha una “aspettativa di vita” massima di un paio di giorni. L’intervento di un ente deputato a stabilire se in una news on line c’è stata diffamazione richiederebbe ben più tempo. L’oscuramento immediato della presunta bufala, che sembra l’obiettivo non dichiarato di chiunque si stia caricando sulle proprie spalle il problema, non può essere raggiunto in altro modo che con l’azione delle piattaforme senza le quali la fake news non avrebbe visibilità: quindi Facebook, Twitter e via dicendo.

Esistono solo pochi meccanismi di controllo a breve termine che attualmente funzionano su piattaforme che devono gestire enormi quantità di dati: essi agiscono per tutelare il copyright (ad esempio su YouTube) o per eliminare contenuti pornografici indesiderati (spesso previa segnalazione di utenti). Tali misure di salvaguardia dei contenuti costano ai social network moltissimo in termini di salari, poiché è chiaro che sono persone in carne ed ossa ad operare le dovute censure con tempestività.

L’idea di un sistema in stile Wikipedia corrisponderebbe invece alla soluzione prospettata dai Cinque Stelle di un tribunale del popolo, che necessariamente dovrebbe agire on line e gratuitamente. Ma mentre l’etica degli operatori di Wikipedia (che sono utenti comuni) è l’unica garanzia di obiettività nel correggere informazioni erroneamente date dalle voci della propria enciclopedia, è chiaro che un sistema-Wikipedia applicato a questioni ad alto grado di polarizzazione quali le news politiche non funzionerebbe.

Esiste la possibilità che i contenuti presenti sui social network vengano “moderati”, ovvero oscurati in tempi brevi in caso di mancato rispetto di un regolamento prestabilito. Ma tale opera costa denaro, e viene applicata solo se è strettamente necessaria. Quando ciò accade? Quando c’è la possibilità che le stesse piattaforme social divengono il bersaglio di cause multimilionarie, dalle quali comunque spesso riescono a difendersi.

Obbligare i social (minacciando o sporgendo grandi quantità di denunce contro di questi) a controllare possibili diffamazioni provenienti dai contenuti che ospitano sembra una delle poche e impervie strade percorribili.

COPIARE LA FRANCIA?

In Francia, in vista delle prossime elezioni nazionali (ed in vista della temuta vittoria di Le Pen), si sta puntando invece su una interessante collaborazione tra testate riconosciute e Facebook.

Facebook sta accettando infatti di contrassegnare con un’etichetta contenuti che vengano segnalati dagli utenti come falsi. I contenuti quindi non verrebbero oscurati, ma etichettati dopo una breve analisi degli operatori di Facebook (ma siamo sempre lì: “Who watches the watchmen?”).
Facebook ha inoltre annunciato che modificherà il proprio algoritmo che fa apparire determinati contenuti nel news feed, privilegiando i “contenuti autentici” (quindi privilegiando le testate riconosciute).

Decodex è un altro progetto nato in Francia, ad opera di Le Monde. Un portale che effettuerà una verifica automatizzata della fonte qualora venga sottoposto dall’utente il link di una news. Sembra però una soluzione poco efficace, poiché prevede la volontà del lettore di validare le fonti della sua informazione, una volontà che, se ci fosse, renderebbe il problema bufale naturalmente arginabile, dato che anche senza un’applicazione preposta a farlo il web è potenzialmente il luogo naturale in cui confrontare fonti per capirne il livello di credibilità.

Valerio Santori
(Twitter: @santo_santori)

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