Una delle citazioni che più aiuta a comprendere la controversa situazione di Gerusalemme è quella dell’atleta neozelandese David Kirk, riportata in un articolo di Modi Ovadia: «L’entrata in Gerusalemme ha tutti gli elementi del teatro dell’assurdo».

Come il Godot di Beckett, Gerusalemme è il simbolo di una situazione paradossale: non solo perché “la città della pace” si è trasformata in una delle realtà più tormentate al mondo, ma anche perché nel cuore della Terra Santa tutto sembra ripetersi sempre uguale a sé stesso, senza alcuna logica. Decennio dopo decennio, il conflitto continua incessantemente: la sconfitta non è mai completa, la vittoria non è mai duratura, le rivendicazioni sempre più numerose.

A Gerusalemme come in Godot, si parla e si aspetta strenuamente un protagonista che non arriverà mai: una pace completa, duratura, giusta. Ma a differenza dei personaggi beckettiani, che mai sapranno se un giorno lo sconosciuto ritardatario arriverà, chi vive a Gerusalemme è costretto ad arrendersi alla resistenza di uno scontro che passa implacabile da una generazione all’altra, restando in balia di una classe dirigente non all’altezza e legata a doppio filo all’immediatismo del qui e ora.

Questa volta a ricordarcelo è stato Donald Trump che, spostando l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, ha riacceso la miccia della guerriglia e ribadito al mondo intero l’incapacità della politica internazionale di intervenire positivamente nel conflitto.

Nonostante la condanna dell’Assemblea ONU e le minacce provenienti dai paesi arabi, il sodalizio tra Trump e Benjamin Netanyahu era annunciato da tempo. Ed era anche prevedibile il ricorso alla vecchia scusa della democrazia per sostenere il riconoscimento di Gerusalemme a unica e indivisibile capitale di Israele, come «scelta necessaria per la pace».

Di questo sembra esserne convinto anche il Primo Ministro israeliano che, ignorando la decisione dei rappresentati religiosi di Betlemme e Gaza di cancellare tutte le celebrazioni natalizie in segno di protesta e di solidarietà, ha fatto gli auguri ai cristiani senza perder tempo in convenevoli: «Buon Natale da Gerusalemme, capitale di Israele».

Trump, d’altra parte, ha dichiarato orgogliosamente di essere stato l’unico presidente degli Stati Uniti ad aver mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale – al contrario di Clinton, Bush e Obama –, ma resta da chiarire come riuscirà, invece, a mantenere quella di una pace basata sulla coesistenza di due Stati, uno israeliano e uno palestinese. La soluzione dei due Stati, infatti, passa inevitabilmente per la condivisione di Gerusalemme, che entrambi i popoli considerano capitale, e a cui nessuno può rinunciare per motivi molto più che politici.

Città santa tre volte, Gerusalemme è capitale dell’antico regno di Israele, sede sacra dell’ascesa di Maometto e luogo della crocifissione e resurrezione di Gesù.

Nella Città Vecchia si trovano fianco a fianco i simboli fondamentali di ebraismo, islamismo e cristianesimo: il Monte del Tempio, il Muro Occidentale, la Chiesa del Santo Sepolcro, la cupola della roccia, la moschea di al-Aqsa.

Ma Gerusalemme è anche un simbolo demografico: la sua popolazione è di circa 870 mila abitanti, di cui 38-39% arabi e 61-62% ebrei. Ignorare questo dato nega l’identità stessa della città. Questa compresenza forzata spinse il presidente americano Bill Clinton a proporre una divisione della città su base urbana e demografica, in quartieri arabi e quartieri ebraici. Ma in che modo dividere la Città Vecchia, casa di circa 3.500 ebrei e 33.000 arabi e sito di decine di siti religiosi e storici significativi per entrambi i popoli?

Ecco perché qualsiasi riconoscimento unilaterale ignora l’essenza nello stesso tempo indivisibile e condivisa di Gerusalemme. Così pensavano anche le Nazioni Unite nel 1947, quando decisero che la città santa non dovesse essere sotto il controllo di nessuna delle due popolazioni ma doveva avere uno status indipendente, soggetto all’amministrazione internazionale.

L’infelice gesto politico di Trump ci ha ricordato semplicemente che la risoluzione del conflitto è lontana e lo sarà ancora per molto tempo.

Sia perché di questo riconoscimento alle autorità palestinesi poco importa: per il presidente Mahmud Abbas, Gerusalemme resterà la capitale eterna della Palestina. Anche perché la mossa statunitense si inserisce perfettamente in un decennale copione autoreferenziale, in cui a nessuno interessa davvero il raggiungimento della pace e dove tutto sembra restare uguale a sempre: continuano le guerre, continuano l’occupazione, continuano i kamikaze, continua il fanatismo, al di là e al di qua del muro.

Infine, rimane anche un altro punto: Gerusalemme è de facto la capitale di Israele da più di 50 anni. Lo è da quando, l’8 giugno 1967, l’esercito israeliano occupò illegalmente la parte orientale della città. Ben prima di oggi, Gerusalemme era già la sede della Knesset, del Mossad, della corte suprema e di tutti i ministeri. Anche del Ministero dell’Interno, proprio nel cuore della Gerusalemme palestinese.

L’unica differenza è che oggi, davanti a un gesto ufficiale così sfrontato, la comunità internazionale, con una buona dose di ipocrisia, si ricorda che in quella micro-porzione di mondo continua ad andare in scena la tragicommedia dell’assurdo, dove ebrei, musulmani e cristiani vivono fianco a fianco in una lotta incessante per avere legittimità, diritti e sopravvivenza.

Rosa Uliassi

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