Il Coronavirus e l’arte dell’ozio ai tempi della quarantena
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Le misure di quarantena dettate dal Coronavirus ci hanno costretti agli arresti domiciliari. Boccheggianti alle finestre, girasoli da terrazzo, stiamo provando a convivere da qualche settimana con nient’altro che ozio: noi stessi, le nostre cose, i nostri (si fa per dire) spazi, ma soprattutto i nostri pensieri.

Lo Stato ci ha autorizzati a stare a casa, a rallentare i ritmi, a rimanere per ore sul divano a guardare quella serie tv di cui tutti parlano e che non siamo mai riusciti a finire. Nessun mezzo da prendere al mattino con gli occhi ancora appannati; non più cravatte, ma comodi pigiami; niente traffico; nessuna corsa al supermercato o in palestra.

Eppure, la quarantena ci pesa, ci infiacchisce, ci rende nevrotici. Ma perché abbiamo perso la capacità di indugiare nell’ozio?

I ritmi frenetici a cui siamo abituati, scanditi da orari, da obiettivi, da programmi schedulati al secondo, hanno reso il concetto del “dolce far niente” solo un anacronistico modo di dire. A fine giornata riusciamo a sentirci soddisfatti solo se il programma è andato a buon fine e la nostra lista di to do è piena di spunte che ci legittimano a dormire sonni sereni.

Eppure, la civiltà greca e quella romana ci hanno ampiamente tramandato il concetto di otium, ovvero di quella dimensione della vita privata che, in quanto non influenzata dalle preoccupazioni e dalle esigenze dettate dalla vita pubblica, può essere dedicata ad attività disinteressate, ovvero a tutto ciò che ci appaga: leggere un libro, fare una passeggiata, occuparci del nostro giardino e così via. Ma, soprattutto, è questa una dimensione che non ha a che fare con l’inerzia o con la pigrizia, ma che piuttosto si rende indispensabile per predisporre l’animo ad affrontare con maggiore leggerezza ed efficacia gli impegni della vita quotidiana.

Vituperato nel corso del tempo, ingiustamente assimilato al concetto di pigrizia, l’ozio è stato definitivamente stigmatizzato dall’avvento dei social media: stare a casa significa non solo non avere niente di meglio da fare e nessuno da incontrare, ma, soprattutto, significa non avere niente da postare.

I social media ci sottopongono quotidianamente ad un elevatissimo numero di stimoli (l’ultimo ristorante in voga in città, luoghi esotici da visitare, film imperdibili al cinema etc.), abituandoci a uno stile di vita, quello degli influencer, in realtà impraticabile per chi non faccia dei social il proprio mestiere. Ed ecco che la quarantena ha prosciugato il fiume delle esperienze uniche ed imperdibili che tanto teniamo a pubblicizzare sui nostri profili. Certo, ci siamo reinventati e la pizza gourmet è stata sostituita dalla pizza homemade con tanto di passaggi di preparazione, ma si sa: chi dorme non prende like.

D’altronde, non sono solo i nostri followers ad aspettarsi che le nostre vite siano dedicate alla collezione di esperienze interessanti. È sufficiente iniziare un processo di candidatura a una qualunque offerta di lavoro per rendersi conto del fatto che non si è mai sufficientemente skillati. Pagina dopo pagina, sezione dopo sezione, pretenziose righe di testo attendono di essere riempite con il racconto delle attività e delle esperienze che ci rendono idonei a ricoprire quella posizione, rendendo di per sé implicito che, se non abbiamo nulla da raccontare, non possiamo sentirci in diritto di tentare.

In un contesto socio-culturale in cui la dimensione dell’essere ha ampiamente ceduto il passo a quella del fare, in un contesto in cui ci definiamo per le esperienze che facciamo piuttosto che per i tratti della nostra personalità, l’otium delle culture antiche non contribuisce, quindi, ad arricchire il nostro elenco di “ho fatto” e di “ricordo quando”, e, pertanto, ci risulta un inutile brandello di tempo morto che non sappiamo gestire, uno spettro che le nostre vite efficienti erano riuscite ad allontanare, ma che adesso la quarantena ci costringe ad affrontare.

La soluzione? Fare di necessità virtù: in questo periodo di forte stress, concediamoci di rallentare il passo e di accettare l’ozio forzato come una terapia che fa bene alla mente, come dicevano i nostri antenati, e al nostro sistema immunitario, come dice la scienza moderna.

Roberta Cammarota

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