Premier League e Bundesliga surclassano la Serie A. Il declino del calcio italiano, iniziato quando era al massimo della sua storia, attraverso i numeri è palese.

Quando si passa da una lingua all’altra, pur conservando il senso della traduzione, ci sono delle espressioni che non possono essere tradotte. O meglio che, tradotte, non hanno lo stesso impatto. Una delle espressioni, secondo me, più interessanti della lingua inglese è ‘used to‘, che potremmo definire come ‘avere l’abitudine di’. Ecco, la Serie A used to be il miglior campionato del mondo. Inventato dagli inglesi, vero. Reso spettacolare dai talenti sudamericani, altrettanto vero. Ma era qui che molti di quei talenti sognavano di arrivare un giorno. Oggi, invece, come detto dal presidente della Juventus, Andrea Agnelli, nella lettera agli azionisti, i giocatori non scelgono più l’Italia come punto d’arrivo, bensì come meta di transizione.
28 maggio 2003, Old Trafford, Manchester. Non è una data né un luogo qualsiasi. A molti non servirebbe probabilmente che si dica altro, ma, per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, il riferimento è alla Finale di Champions League tra Milan e Juventus: due squadre italiane in finale nella massima competizione europea per club, tre addirittura in semifinale (Inter, eliminata dai cugini). Quella data potremmo idealmente prenderla e affiggerla al muro, perché rappresenta il più alto punto della storia del nostro calcio. Da lì è cominciata, però, la nostro lenta discesa che, purtroppo, al momento non accenna ad arrestarsi. Una crisi profonda, le cui cause sono molteplici e che oggi coinvolgono – in un modo o nell’altro – tutte le nostre società. Anche le più grandi. Soprattutto le più grandi. Il calcio milanese, che una volta faceva tremare il mondo, sembra annaspare nella mediocrità, sommerso da una storia in questo momento troppo importante e debiti che continuano a crescere. Ecco, il declino di Milan e Inter – Milano è da sempre la Città del calcio italiano – rappresenta più che mai le difficoltà che il nostro mondo del pallone sta affrontando. Perché? Proviamo ad analizzarlo e a dare delle risposte, ammesso che ci siano e che noi siamo in grado di fornirle.

Ronaldo
Ronaldo Luís Nazário de Lima ha giocato nell’Inter dal 1997 al 2002

I NUMERI DELLA CRISI – Strength in numbers, così recitava lo slogan dei Golden State Warriors campioni NBA la scorsa stagione. La forza è nei numeri, perché i numeri possono dire molto, non tutto – per fortuna del gioco – perché altrimenti basterebbe guardare classifiche, statistiche e valori per comprendere. Resta il fatto che non possono essere ignorati, soprattutto quando a parlare sono i valori di mercato di un’azienda: il prodotto calcio italiano è cresciuto dell’1% (22 milioni) nella stagione 2013/14 (ultimi dati rilevabili). Poco, troppo poco, se comparato alle crescite delle sue “rivali” europee a livello economico/commerciale: 32% per la Premier League (952 milioni) e 13% per la Bundesliga (257 milioni).

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Analisi n.1 (cifre in migliaia di milioni)

La tabella sovrastante (Analisi n.1) mostra come l’aumento dei ricavi per il massimo campionato italiano sia minimo. L’unico campionato che ha una crescita apparentemente simile è quello spagnolo che, però, ha la forza di avere due club come Barcellona e Real Madrid che insieme fatturano, al netto delle plusvalenze, più di Juventus, Milan, Roma, Inter e Napoli (1.2 miliardi vs 1.1 miliardi circa). Inoltre, dalla prossima stagione, entrerà in vigore il nuovo modello di contrattazione collettiva dei diritti tv che, secondo le stime di Deloitte.com, dovrebbe portare a un aumento di circa il 40% rispetto al contratto attuale.
La Serie A continua ad essere, dunque, un campionato che non prospetta margini di crescita e, allo stesso tempo, vede un incremento sempre più alto degli ingaggi che, ovviamente, porta la gran parte dei club a chiudere il proprio bilancio in rosso. Ad oggi, il rapporto tra ricavi/stipendi (principale indicatore di stabilità finanziaria dei club) è al 70%, ovverosia proprio al limite dello standard dettato dal Fair Play Finanziario, in cui la combinazione costo del personale tesserato e ammortamenti non deve superare il 70% del fatturato al netto delle plusvalenze. Questo vuol dire che in Italia, in media, una società utilizza oltre 2/3 dei propri ricavi per pagare gli stipendi, destinando ciò che rimane – quel che il presidente della Juve definisce “potenza di fuoco” – al miglioramento della propria squadra. Troppo poco, soprattutto, considerando che all’estero i modelli da prendere in considerazione, Bundesliga e Premier League, non superano rispettivamente il 49% e il 58% in questa voce. Come risolvere questo problema? Il Milan negli ultimi anni ha provato ad abbattere i costi di gestione, riducendo fortemente il monte ingaggi – che, comunque, resta il terzo più alto della Serie A con 101 milioni. Cedendo, però, i giocatori migliori, il Milan ha ridotto anche le possibilità di essere competitivo in Italia e di qualificarsi in Champions League. Dunque, ha sì abbattuto i costi ma ha anche ridotto gli introiti, con un nulla di fatto come risultato.

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Analisi n.2

DIVERSIFICARE – Il caso del Milan fa capire come il regime di spending review che vige in Italia, anche a causa del Fair Play Finanziario, non sia la strada giusta da perseguire per tornare competitivi. Bisogna creare le condizioni per rendere possibile una maggiore diversificazione delle entrate, come accade negli altri campionati. Cosa vuol dire? Semplicemente, uno dei motivi per cui fatichiamo a crescere economicamente è che siamo dipendenti dagli introiti dei diritti televisivi, che incidono in media per il 57% degli introiti totali e rappresentano il valore più alto tra le cinque leghe più importanti; ciò significa che le altre due voci che compongono il bilancio di una società calcistica, ricavi commerciali e da stadio, hanno poca rilevanza. La mancanza di un portafoglio ampio rende più complicato chiudere un bilancio in crescita e in positivo senza il continuo ausilio del player trading – lo abbiamo visto con il Napoli negli ultimi anni – e contribuisce sempre di più ad allargare la forbice tra i club esteri (dei campionati di riferimento) e i nostri. Facciamo un esempio, per far comprendere meglio: Il Manchester United la scorsa stagione, pur non qualificandosi in Champions League, ha portato a termine acquisti per un valore totale vicino ai 200 milioni di euro (!); contestualmente, il Napoli – eliminato ai preliminari dall’Athletic – ha speso attorno ai 34 milioni di euro. Un abisso di differenza. Al di là, adesso, del valore specifico dei due brand – molto diversi – questo fa capire come in Inghilterra i club abbiano una stabilità economica che noi non abbiamo. Perché? Come possiamo vedere dalla tabella Analisi n.2, in Serie A i ricavi relativi al match day sono molto più bassi che altrove. Se n’è parlato molto in questi anni dei famosi ‘stadi di proprietà’, delle chimere a quanto pare in questo Paese; ma il problema non è tanto essere proprietari o meno – ci sono molti esempi in giro per l’Europa di grandi impianti non appartenenti direttamente alle società – quanto l’avere delle strutture in pessime condizioni,  che non permettono ai tifosi di essere ospitati come dovrebbero né alle società di capitalizzare quanto necessario, anche da un punto di vista patrimoniale. L’unico dato in controtendenza è lo Juventus Stadium, un vero gioiello che permette alla Juventus di avere introiti due volte superiori alle sue dirette concorrenti in Italia. Certo, non ha una capienza enorme (41 mila posti a sedere) ma è adatto al bacino d’affluenza bianconero. Inoltre, bisogna ricordare che non è tanto la capienza di uno stadio a fare la differenza, quanto la capacità di renderlo un polo attrattivo capace di fruttare al meglio: lo Stamford Bridge, casa del Chelsea, ha ricavato nell’ultima stagione oltre 80 milioni di euro dai match day, il doppio di quanto fatto dalla stessa Juventus con il suo Stadium. È evidente, quindi, che oltre ad una mancanza di strutture vere e proprie, è anche la nostra scarsa capacità di commercializzare al meglio il nostro brand che ci tiene ancorati al fondo.

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Fonte: Deloitte.com (cifre in milioni)

Commercializzare. Già, anche da quel punto di vista non siamo messi granché. La Juventus, che in questo momento è nettamente la migliore squadra italiana da un punto di vista economico, occupa soltanto la tredicesima piazza tra le società che più ricavano da questo settore (85 milioni) e, nonostante l’accordo l’accordo entrato in vigore con Adidas e il rinnovo con Jeep, non dovrebbe discostarsi molto da queste cifre. Davanti a lei, in undicesima, il Milan, prima tra italiane con 102,1 milioni messi a bilancio sotto questa voce, comunque distante dalle prime. Comanda il Paris Saint-Germain con oltre 300 milioni grazie all’accordo con Qatar Tourism Authority. In attesa dei risultati del primo anno di partnership tra Manchester United, Chevrolet e Adidas, che punta a sforare il tetto dei trecento milioni, comunque, partendo da una base solida di 226 milioni, al secondo posto in questa graduatoria troviamo il Bayern Monaco con 292 milioni. Il club bavarese, solo di merchandising, riesce a toccare quota 105,2 milioni. Una cifra monstre, se consideriamo che le italiane non raggiungono questa cifra neanche considerando il totale dei ricavi commerciali.

«It’s a business, man!» ci direbbero, probabilmente, dall’altra parte dell’Oceano. Ed è esattamente questo punto che ancora non abbiamo ben compreso: il calcio ormai non è più un semplice sport, è un business. E, come tale, soprattutto in un sistema in cui non ci sono limitazioni – a differenza dello sport americano – solo chi riesce ad assicurarsi maggiori entrate può essere competitivo. Dobbiamo, quindi, trovare un sistema economico che permetta al campionato italiano di tornare realmente competitivo, cosa che non accade ormai da anni. E non lasciamoci impressionare dalle finali di Champions giocate da Inter (2010) e Juventus (2015), perché quelle non sono affatto frutto del lavoro della Lega Serie A, ma delle singole società. I problemi sono tanti e affannosi, e se non iniziamo a risalire la china il prima possibile, rischiamo di non farlo più. Il futuro del calcio italiano è adesso.

Michele Di Mauro

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