La caccia avvertita come attività di genere
Fonte: Wikimedia Commons

Da inizio legislatura, alcuni personaggi politici che fanno parte dei partiti che compongono l’attuale maggioranza parlamentare, stanno riservando grande attenzione verso la categoria dei cacciatori e più in generale nei confronti del mondo venatorio. Tra questi si è fatto ultimamente notare il consigliere regionale del Veneto di Fratelli d’Italia, Joe Formaggio, che durante una fiera delle armi organizzata a Verona, ha ricordato l’importanza della lobby dei cacciatori nel nostro Paese. Il settore venatorio svolge infatti un ruolo non indifferente nel sostenere l’economia nazionale, dato che la Federazione italiana della caccia, la più importante associazione nazionale di categoria, ha dichiarato che questa attività genera un valore di 8,5 miliardi l’anno. Ad ogni modo, sottolineato il fattore economico riguardante la caccia, è utile soffermarsi sulla prospettiva di genere di tipo storico e culturale che contraddistingue questa attività.

Che la pratica venatoria sia percepita normalmente come un’attività ad appannaggio maschile, lo dimostra innanzitutto l’enorme difficoltà di rinvenire statistiche sul numero delle cacciatrici presenti nel nostro Paese. Facendo fede alle dichiarazioni rilasciate dal Coordinamento nazionale Cacciatrici Federcaccia, le donne appassionate di caccia ammontano approssimativamente ad un numero di 2.000 – 3.000 persone in Italia. Un numero molto esiguo se prendiamo in considerazione uno studio di Legambiente sulla popolazione venatoria presente sul territorio nazionale, il quale dimostra che il numero di licenze di porto di fucile ad uso caccia, negli ultimi anni, si aggira intorno alle 650.000 persone. Ne consegue che la caccia è effettivamente anche una questione di genere.

Per esaminare così la tematica, ci affideremo al famoso saggio della storica americana Joan Scott dal titolo “Gender: A Useful Category of Historical Analysis”, pubblicato nel 1985 su American Historical Review. In questo elaborato, la post-strutturalista statunitense sostiene che: «Gender is a costitutive element of social relationships based on perceived differences between the sexes». Ne consegue che il genere costituisce le relazioni sociali attraverso quattro dimensioni tra loro interdipendenti: la dimensione simbolica, quella normativa, la dimensione pertinente alle istituzioni, ed infine quella dell’identità soggettiva. Andiamo a vedere perciò come questi elementi, nel corso dei secoli, permettono alla caccia di essere avvertita come un attività prettamente maschile.

Partendo dalla dimensione simbolica, notiamo che la mitologia classica individua come divinità della caccia una figura femminile: per i greci era Artemide, mentre i romani la chiamavano Diana. Figlia di Zeus e Latona, sorella gemella di Apollo, questa dea viene spesso rappresentata come munita di arco e di lancia da caccia. All’interno dell’immaginario collettivo, Artemide viene percepita come un modello di femminilità che non è legato all’idea di moglie e madre, ovvero che non ha bisogni di un uomo al suo fianco. Al contrario, questa dea è simbolo di sorellanza, dato che la legenda vuole che viveva con le ninfe nel bosco. Una dea vergine che incarna uno spirito femminile indipendente, capace di andare sempre dritta a bersaglio e quindi di raggiungere un obiettivo senza alcun indugio.

Sulla dimensione simbolica si innesta così prima quella normativa e poi quella istituzionale. Nel periodo medievale e rinascimentale non era certamente un’eccezione per il sesso femminile cimentarsi in attività venatorie. Ne danno conferma numerose opere d’arte, come il manoscritto “The Taymouth hours”, realizzato in Inghilterra nella seconda metà del Trecento, dove compaiono 30 miniature che raffigurano nobili signore intente a praticare svariate modalità di caccia. Di fatto, le donne spesso prendevano parte all’attività venatoria in forma passiva tramite falconi o mute di cani, cioè un tipo di caccia gentile particolarmente adatta al genere femminile. Invece, in minor numero di volte le donne partecipavano a cacciare animali di grossa taglia, quali cervi, cinghiali e lupi (anche se le eccezioni non mancano, come ad esempio la duchessa di Milano Beatrice d’Este).

Allora perché oggigiorno la caccia è un attività omosociale? Presumibilmente, il cambiamento avviene nel periodo in cui si istaura il sistema capitalista, che organizza la società in base a due diverse sfere di influenza, ovvero la sfera privata e quella pubblica. In questo modo, la donna diventa l’angelo del focolare domestico, un ruolo che assume a seguito di presunte capacità biologiche che la rendevano adatta al lavoro di cura. Specularmente, invece, l’uomo possedeva secondo natura razionalità e autocontrollo delle proprie emozioni, qualità che lo rendevano padrone delle attività a carattere pubblico, tra cui rientra anche quella venatoria. A seconda quindi del nuovo sistema di produzione, cambiò la percezione dell’uomo e della donna e di conseguenza la loro funzione all’interno della società occidentale.

Ne consegue che con l’instaurazione di un nuovo modo di produzione, cambia anche il significato della caccia. Da attività di sussistenza praticata in passato da ambo i sessi, questa istituzione incomincia adesso ad essere percepita esclusivamente come attività maschile rivolta a custodire il patrimonio naturale. In questo modo si modifica il precedente elemento simbolico, che si sposta dalla figura femminile della dea Artemide a quella maschile di Adamo propria della religione cristiana. Come spiega infatti il teologo spagnolo don Oscar Maixe: «La morale cristiana non è contraria alla caccia, in linea di massima. Nella Genesi, Adamo riceve da Dio la missione di amministrare il creato, non di esercitarvi un dominio assoluto». Questo nuovo immaginario permette perciò al cacciatore di definirsi ambientalista, dimostrando che il suo agire è unicamente finalizzato a conservare la natura o ripristinare caratteristiche ambientali compromesse.

Su questa nuova dimensione simbolica che trasforma la caccia in un’attività orientata ad una presunta missione ecologica capace di salvaguardare la biodiversità, si innesta così un nuovo piano normativo che trasforma l’impianto mentale attraverso cui si strutturano le modalità interpretative e ricettive della categoria di cacciatore. Di fatto, si inizia a sostenere che gli uomini a contatto con la natura riscoprano la loro virilità, quella piena efficienza sessuale e muscolare sopita dalla dissolutezza derivante dallo stile di vita urbano. In questo modo, viene riscoperto quel sentimento di potenza che l’attività venatoria comporta, in grado di offrire temporaneo sollievo al disagio esperito dai cacciatori – secondo la psicologa clinica Margaret Brooke-Williams

Questo sistema di pensiero e conoscenza regolato da norme che definiscono il profilo del cacciatore, viene inizialmente tramandato da padre in figlio e da nonno a nipote. Tuttavia, attorno alla caccia si è sviluppata nel corso del tempo una vera e propria disciplina che gli ha consentito di essere riconosciuta come istituzione, in quanto fattore che opera in corrispondenza delle caratteristiche strutturali della società, inserendosi nell’ambito delle norme o delle consuetudini. Ne sono ad esempio la prova la presenza dell’Accademia Ambiente Foreste e Fauna del Trentino, la più avanzata scuola di formazione venatoria, oppure i diversi corsi di falconeria attivi sul nostro territorio, ed anche l’esistenza di strumenti normativi o legali per controllare l’attività venatoria, come la licenza di caccia.

In ogni caso esistono molteplici concezioni di mascolinità che variano nel tempo, nella società, nella cultura e nell’individuo, come afferma la sociologa australiana Raewyn Connell nell’opera “Masculinités: Enjeux sociaux de l’hégémonie”. Di fatto, la mascolinità egemonica propria dell’uomo cacciatore, la quale legittima i rapporti di potere all’interno del mondo venatorio, incarna una forma di organizzazione sociale che è sociologicamente sfidata e cambiata. Interviene così la dimensione dell’identità soggettiva, che prevede l’esistenza di uomini che non incarnano le norme della mascolinità e che quindi si trovano subordinati alla mascolinità dominanti. Un sondaggio condotto dall’associazione AnimaLiberaction, rileva che nella società italiana è presente una componente maschile che rifiuta il modello egemone. Sono effettivamente il 40% gli attivisti maschi che sfidano i codici culturali stabiliti dall’attività venatoria e si adoperano per la causa animalista e antispecista nel nostro Paese. A riprova che non siamo completamente determinati da costanti relazioni sistematiche, ma possediamo un margine di capacità che ci permette di agire autonomamente in situazioni specifiche e di prendere decisioni proprie.

Gabriele Caruso

Gabriele Caruso
Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, mi occupo soprattutto di indagare la politica italiana e di far conoscere le rivendicazioni dei diversi movimenti sociali. Per quanto riguarda la politica estera, affronto prevalentemente le questioni inerenti al Regno Unito.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.