Le distrazioni di massa continuano imperterrite ad alimentare le giornate e il senso delle ore di un’estate sempre più strana che corre dietro esclusivamente alle varianti e ai vaccini ma che dimentica gli ultimi – fra cui i detenuti – e le violenze che subiscono, in un silenzio assordante e nelle parole di pochi. Una modalità, quella delle distrazioni di massa, che funziona oggi ma che ha funzionato anche l’anno scorso, durante le rivolte nelle carceri, avendo particolare seguito, in piena pandemia, quando ci si alimentava di casa e televisione dimenticando che oltre le mura domestiche ci fossero “gli altri”, per l’appunto i dimenticati, coloro che per molti cittadini italiani andrebbero chiusi in una cella a vita.
In piena pandemia da Covid-19 gli ultimi si sono ribellati, da Nord a Sud, numerosi detenuti e gli stessi familiari si sono permessi di rivendicare i propri diritti, quelli che forse non si trovano nelle normative penali ma solo nei famosi Dpcm, vincolanti per tutti e a garanzia della salute pubblica, ma estranei agli ambienti penitenziari. Estranei perché nonostante molti detenuti avessero rivendicato la necessità di diminuire il numero delle persone in una cella, di poter vedere in sicurezza i propri familiari, di comunicare con loro, di avere un minimo contatto, uno scambio empatico, una relazione che desse loro notizie, informazioni, che rincuorasse anche le loro anime inghiottite dal silenzio e dall’indifferenza della comunità carceraria, non hanno ricevuto una risposta imminente, non si è tradotta nella possibilità di attuare misure di detenzione alternativa.
Tra le tante colpe che gravano su queste esistenze possiamo loro addossare anche la colpa di aver manifestato un legittimo dissenso a garanzia della propria salute? Questa volta possiamo sollevarli da questo onore, ma non si possono esentare dalle loro responsabilità lo Stato, i dirigenti, gli agenti e tutti coloro che non sono intervenuti potendo intervenire e sapendo quanto già accadesse.
Quando a marzo iniziarono le varie rivolte carcerarie qualcuno provò a semplificare in questo modo: “dietro le rivolte c’è l’interesse delle mafie“, magari dietro qualche scelta personale c’era davvero la mafia, eppure dietro a quelle azioni forti e dalle parole dichiarate dagli stessi familiari c’era la necessità di sapere che cosa accadesse, il motivo per cui i colloqui con i parenti fossero stati sospesi, oppure, il perché tra le altre cose, avvenne la sospensione dei permessi premio e del regime di semilibertà. Scelte che fecero scatenare la rabbia in più di 20 carceri italiane. Quello che in molti non hanno raccontato è che in quelle rivolte c’è tutto il nostro sistema carcerario, un sistema già al collasso che ha trovato terreno fertile per raccontare, purtroppo, con violenza.
Una violenza che ha attraversato quei luoghi, l’aria dei corridoi, delle celle, come dimostra quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel video in anteprima del quotidiano “Domani“. Detenuti umiliati, costretti a mettersi in ginocchio, subendo calci, pugni, manganellate, costretti a vivere la paura della morte, del sopruso, di un inferno sceso ai loro piani, domati e abbattuti come vitelli. Tra task force e comitati scientifici, lo Stato ha lasciato che i panni sporchi fossero lavati in casa, dimenticando la propria responsabilità, rivendicandola, forse, solo a seguito delle rivolte e delle stesse violenze.
Temi su cui dirigenti, ministri, professori, spesso nomi illustri, dibattono, invitano giovani e studenti a partecipare, organizzano convegni, mostrano il proprio dissenso rispetto alle condizioni delle carceri, di quanto sia grave il sovraffollamento e di come il sistema stesso sia fallimentare in una reale prospettiva di recupero e di reinserimento sociale. Questo per dire che tutti sanno, tutti ne parlano, tutti elaborano progetti, scrivono libri, vanno in televisione, riempiono insomma gli spazi con le parole, ma mai che tutto ciò venga tradotto operativamente se non in sporadici casi.
In Italia c’è quella cultura del sofista, dell’oratore, del politico che centellina le parole da dire in cambio di consenso; l’Italia ha dimenticato la politica del bene comune, la politica del fare, del problem solving, delle competenze, della visione e della risoluzione dei problemi sociali, dell’onestà.
Quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è solo la punta dell’iceberg di quanto accade nelle carceri italiane e, mentre in Italia tutto si fermava a causa della pandemia, in quel penitenziario, con il pretesto delle rivolte, si perdeva lo stato di diritto e qualsiasi garanzia costituzionale. Ad oggi sono 52 le misure cautelari disposte: 8 agenti sono in carcere, 18 agli arresti domiciliari, 3 con obbligo di dimora e 23 non potranno svolgere per un periodo il proprio lavoro; tra le accuse rientrano i reati di tortura pluriaggravata, maltrattamenti e lesioni personali.
Per intercettare dinamiche del genere bisogna innanzitutto creare le condizioni affinché un sistema carcerario rieducativo funzioni, prospettando la possibilità di reinventare il carcere, accettando con consapevolezza e senso critico che il carcere, così pensato, è in realtà un seme che non sboccia perché in gran parte dei casi il reo non migliorerà le proprie condizioni di vita in assenza di alternative, di supporto sociale, familiare; la possibilità di reiventare il carcere e renderlo funzionale inizia già da dentro: dalla vivibilità degli ambienti, dal supporto psicologico che possa aiutare a comprendere le proprie risorse e incentivare un cambiamento di atteggiamento, creando le condizioni migliori affinché ci sia continuità con il tessuto sociale e non si viva l’impatto di un rientro in società alienante, confuso, fatto dei vecchi e insani “porti sicuri”.
L’essere umano è un animale sociale davvero molto atipico, raramente impara dalla Storia e solo dopo aver contato i propri martiri forse si incanala verso un sapere aude che possa illuminare la strada verso la piena democrazia, allontanando l’idea che in certi ambienti la violenza è l’unico percorso da intraprendere.
Bruna Di Dio