La casa delle madri di Daniele Petruccioli: tra corpi e geometrie affettive. Fonte: https://www.delvecchioeditore.it/profile/daniele-petruccioli/
La casa delle madri di Daniele Petruccioli: tra corpi e geometrie affettive. Fonte: https://www.delvecchioeditore.it/profile/daniele-petruccioli/

La casa delle madri (TerraRossa Edizioni, ottobre 2020) è un romanzo candidato alla LXXV edizione del Premio Strega e il suo autore, Daniele Petruccioli, è un traduttore di mestiere. Gli abbiamo posto qualche domanda per indagare il rapporto delicato che intercorre tra traduzione e spontaneità, rielaborazione e produzione creativa, tra “originale” – ammesso che di originale si possa parlare – e derivato, approfondendone l’influenza sulla sua opera.

Nella sua formazione spiccano due matrici: il teatro e la traduzione. Vorrei cominciare dalla seconda.
In diretta su “Linguacce”, con Vera Gheno e Carlo Cianetti, ha sottolineato – appellandosi a Proust – che «niente viene dal niente»: il testo scritto fiorisce dalla sedimentazione di quel che lo ha preceduto, è il frutto del deposito culturale e personale del suo autore e ne costituisce, in questo senso, una traduzione. Ecco spiegato il titolo de Le pagine nere: le pagine bianche da riempire sono in realtà già scritte e dettate dal testo originale. Come ha sperimentato questo senso di derivazione nel processo creativo che ha accompagnato la scrittura del romanzo?

La pratica della traduzione – in cui, per dirla con una metafora rozza, chi traduce è il vaso che dà forma all’acqua della trama e dello stile di chi viene tradotto – mi ha insegnato che non è possibile prescindere da sé, dal proprio sguardo di interprete. Del resto, la fisica quantistica ci ha insegnato che lo sguardo di chi svolge l’esperimento modifica il campo in cui si svolge, e se questo è vero per le scienze cosiddette esatte figuriamoci per le scienze umane, e ancor più per un atto creativo.

Nella fattispecie, sono partito da alcuni elementi auto e biografici – cioè non solo miei – per sviluppare una serie di temi che per me sono importanti (le coppie gemellari, il lutto, la malattia…) e da lì ho cominciato a costruire La casa delle madri. Ma in realtà il nucleo centrale del romanzo – quello che mi ha dato l’idea da cui partire – è lo sviluppo della frase, la sintassi, quel modo di parlare e ragionare molto specifico di un periodo storico e della mia storia personale.

Dunque si può dire che tutta questa storia deriva da un “originale” che identifico nella pratica del racconto di sé per come l’ho imparata dall’autocoscienza dei collettivi femministi anni Settanta e Ottanta (a cui ovviamente, in quanto uomo, non ho partecipato, ma da cui sono stato formato – informato, vorrei dire – attraverso la mia frequentazione delle donne che lo facevano) ed è questo “originale” a essersi fatto prima scrittura, e quindi stile, se vogliamo, e dopo storia, che è per me il racconto di certi eventi ma anche, se non soprattutto, il modo in cui si sceglie di raccontarli.

Evidentemente, ha dedicato al personaggio di nonna Nina un’attenzione speciale: sembra che si sia riservato una nicchia per ricamare intorno alla sua passione, la traduzione. Nina, da traduttrice, è una «tessitrice di ritmi e melodie, libera dalla costrizione di inventare avvenimenti, libera dai legacci tristi di argomento e trama». Eppure sembra incapace di lasciar trapelare il suo “ritmo”: la derivazione, nel suo caso, sembra opprimente; traduce allo stremo, confinandosi a “medium generoso” mai autentico. Ha mai sperimentato questa sensazione?

Se si intende la sensazione di essere incompleti in qualche modo (rispetto a qualsiasi tratto del nostro carattere – per Nina la musicalità, per altri altre qualità), sì, naturalmente. A dire il vero mi sembra strano che per qualcuno sia possibile definirsi del tutto risolto e strutturato. Nina, come tutti i personaggi del libro, soffre un qualche tipo di “menomazione” – per me, meglio: di incompletezza – che cerca di colmare a modo suo. Per questo mi sono tutti cari, e nessuno, ai miei occhi, è più “positivo” o “negativo” di altri. Niente di più lontano da me di un giudizio morale. Anzi, li ammiro, come ammiro l’essere umano in generale, per la loro capacità di ritagliarsi un qualche spazio all’interno di un contesto che li opprime.

Se invece la domanda vuole suggerire una gerarchia tra “medium”, derivazione, e autenticità, non solo non l’ho mai sperimentata, ma non sono d’accordo che esista. Se tutto è derivato, se tutto è traduzione, interpretazione, sguardo – come ci insegna per l’appunto Proust – non ha alcun senso dare a qualcuno o qualcosa una patente di “autenticità” che a un’analisi più ravvicinata e attenta – almeno secondo Proust, con cui peraltro concordo – si rivela autoingannevole quando non mistificatoria tout court. È solo il retaggio della vulgata romantica sull’autenticità del “genio”, di cui secondo me avremmo dovuto imparare a liberarci almeno da Foucault e Barthes in poi. 

Tra derivazione e dimenticanza sembrano muoversi i personaggi de La casa delle madri. Il contesto familiare, emotivo e culturale che li avvolge assegna loro un ruolo, una destinazione. Penso a Roland Barthes che, nel suo Frammenti di un discorso amoroso, sviscera l’«induzione, che parte dagli altri, dal linguaggio, dai libri, dagli amici» per la quale «nessun amore è originale». Impariamo a desiderare quel che ci viene insegnato esser desiderabile, come guidati da un «contagio affettivo». Perché ritorna ancora una volta questa induzione – o meglio, derivazione – ne La casa delle madri?

Eh, appunto: perché dire che esiste un’originalità secondo me, e anche qui sono d’accordo con Barthes, è semplicemente mistificatorio. Ma, vorrei aggiungere, non c’è niente di male in questo. Davvero abbiamo tanta paura della nostra storia da volercene liberare a tutti i costi? Personalmente sono ben contento di avere un passato – una memoria – da cui tutti i vari “me” derivano, dialogando tra loro. Altrimenti, sai che noia?

Dimenticanza, dicevamo. L’Alzheimer di nonna Nina la riporta a una condizione di originalità: dimentica il pre, le sue diventano “pagine bianche” e finalmente si esprime. In questo senso, la dimenticanza suona come un tradimento: si può tradire l’origine da cui proveniamo, disattendere l’induzione che tenta di indirizzarci. Così Ernesto, che fa uso di stupefacenti nel goffo tentativo di silenziare e tradire il ruolo che sente incombere su di sé e, allo stesso modo, Elia che cambia stanza e si allontana. È d’accordo con questa interpretazione?

A dire il vero no. Non sono mai d’accordo con nessuna interpretazione univoca: è questa, anche, una delle cose che ho cercato di esprimere nella Casa delle madri (senza esporla esplicitamente – sebbene il narratore si esprima in modo esplicito su un sacco di cose – ma tentando di praticarla nel discorso, questo sì). Il modo opposto di reagire alla dimenticanza (un’altra delle tante coppie gemellari del romanzo, stavolta concettuale – e complimenti per averla vista perché questa sta piuttosto nascosta, molto sottotraccia) di Nina ed Ernesto è abbastanza emblematico, per me, proprio di questo. Nina si ammala di dimenticanza (o meglio – le cose sono sempre molto più contorte di come appaiono – la sua dimenticanza diventa la sua malattia) e in questo inventa (in senso etimologico: cioè, trova – ma vorrei dire ritrova, o comunque scopre) una fisicità affettuosa che prima non le apparteneva; per farlo, però, deve dimenticare il nome di sua figlia: i grandi viaggi, le grandi esperienze, ci insegnano qualcosa di nuovo e di importante, ma in cambio pretendono che qualcosa di nostro e di importante lo lasciamo lì. Ernesto, che usa la dimenticanza nel tentativo disperato di guarire dal suo lutto, invece – altro che guarire –, non trova niente: perché il lutto è uno dei grandi viaggi che dobbiamo fare, dei mondi spaventosi che dobbiamo attraversare se vogliamo trovare, o meglio imparare qualcosa da quello che ci abbiamo lasciato – che abbiamo perduto.

Per concludere: l’interpolazione tra induzione e tradimento mi porta a quella tra fedeltà al testo e improvvisazione. D’altronde, anche le pagine dell’attore sono già scritte e costui, come il traduttore, si fa “medium generoso” del discorso altrui. Il palcoscenico, però, lascia sempre spazio all’azione, aperta e trasgressiva, che tradisce lo status quo. Quanto teatro c’è ne La casa delle madri?

Il teatro c’è tantissimo in tutto ciò che faccio, a partire da quando traduco. Innanzitutto perché lo spazio scenico mi ha insegnato che la creatività sta in uno “spazio altro”, che in teatro c’è già perché esiste il palcoscenico (e un tempo non bastava, ci voleva anche la maschera – tanto per confonderci ancora un po’ di più le idee su cosa possiamo chiamare “io” e cosa no), ma che sempre bisogna sapersi ritagliare, quando si cerca di fare qualcosa di bello (ma questo lo ha già detto, molto prima e molto meglio di me, Peter Brook). Poi perché mi ha insegnato la fisicità, vorrei dire la corporeità delle parole, che per me sono innanzitutto suono e ritmo, ma possono catalizzare anche più di una sinestesia (per me di colore e di grandezza, per altri sarà un profumo, una forma, un peso).

Inoltre il teatro è innanzitutto “messa in scena”, ovvero disposizione nello spazio e nel tempo. Questo vale in toto anche per la trama, naturalmente, ma – forse per me: soprattutto – per la disposizione delle parole (di nuovo, la sintassi), nella loro corporeità, nel tempo e nello spazio. Solo così, credo, si crea quello che chiamo il sound di un testo – e che ad altri piace chiamare “stile”.

Siria Moschella

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