Sequestro sede Casapound
Particolare della facciata del palazzo sede del movimento CasaPound in via Napoleone III, Roma. Credits: Cecilia Fabiano/LaPresse

Il 10 giugno scorso è stato ufficialmente notificato all’organizzazione neofascista CasaPound un provvedimento di sequestro preventivo della sede nazionale del movimento, un palazzo in Via Napoleone III a Roma. Il sequestro è collegato all’indagine della Procura di Roma nella quale per i vertici di CasaPound Gianluca Iannone, Andrea Antonini e Simone di Stefano e alcuni attivisti sono ipotizzati i reati di associazione per delinquere finalizzata all’istigazione all’odio razziale e occupazione abusiva di immobile.

Il sequestro è collegato a un’indagine penale; come effetto della misura, gli occupanti dovranno lasciare la sede e, a questo scopo, la Procura dovrà coordinarsi col Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (composto da vertici delle forze dell’ordine, della questura, della prefettura). Da un punto di vista amministrativo, l’ultimo ordine di sgombero del palazzo era stato richiesto nel luglio 2019. Nel novembre successivo i dirigenti di CasaPound avrebbero impugnato il provvedimento e fatto ricorso al Capo dello Stato. A quanto pare l’iter non si è ancora concluso e a pronunciarsi sarà il Consiglio di Stato.

La viceministra dell’Economia Laura Castelli e la sindaca Raggi, circolate le prime informazioni sul sequestro imminente della sede, hanno espresso la loro soddisfazione per la misura parlando di un ripristino della legalità. Le reazioni di Virginia Raggi hanno scatenato un’ondata di minacce – anche di morte – dei militanti del movimento sui social network. Il 9 giugno scorso la sindaca ha depositato una querela tramite il proprio legale.

La vicenda: dall’occupazione degli attivisti di CasaPound ai mancati sgomberi

Dell’occupazione dell’immobile di Via Napoleone III da parte dei vertici di CasaPound si interessò LEspresso, che svolse una prima inchiesta nel 2018. L’edificio è di proprietà dell’Agenzia del demanio (e quindi statale) ed era stato concesso in uso al ministero dell’Istruzione (Miur). Si tratta di un palazzo grande (ha sei piani e più di venti appartamenti) e si trova in una zona di Roma – vicino alla stazione Termini – dove i canoni d’affitto di appartamenti per famiglie costano non meno di 1.100 euro al mese. Nel dicembre 2003, i vertici di CasaPound hanno deciso di occupare l’edificio senza un titolo valido per renderlo la propria sede. Sarebbe stato dunque possibile sgomberarlo in qualsiasi momento, ma LEspresso ha denunciato che non c’erano state sino a quel momento azioni concrete in tal senso.

Nelle attività di sgombero di edifici, le prefetture (enti periferici del ministero dell’Interno) chiedono un censimento delle famiglie ai Comuni per individuare le fragilità sociali, per evitare che chi venga sgomberato si ritrovi senza un’abitazione. Ebbene, nulla era stato fatto per conoscere i reali occupanti dell’immobile di via Napoleone III. L’inchiesta de L’Espresso ha svelato che ad abitarci erano (e sono) i vertici di CasaPound – Di Stefano, Iannone – con le rispettive famiglie, persone non proprio in stato di emergenza abitativa. Per di più nel 2010 la Commissione sicurezza di Roma Capitale aveva mappato gli edifici oggetto di occupazione abusiva, escludendo proprio la sede di CasaPound. All’epoca alla guida della giunta capitolina c’era Gianni Alemanno, e si tratta solo di uno dei molti casi in cui non è stato ritenuto prioritario per la prefettura sgomberare l’immobile.

Gli interventi della sindaca Raggi

I militanti di CasaPound hanno potuto impiantarsi stabilmente nell’edificio, riuscendo a installare telecamere di sorveglianza all’esterno e potendo inserire sulla facciata del palazzo la nota scritta in stile regime “CasaPound“. Proprio su quest’opera in pietra, abusiva e insistente su una strada comunale, ha potuto intervenire Virginia Raggi, che nel luglio 2019 ha diffidato il movimento ordinandone la rimozione.

Nel gennaio 2019 la giunta capitolina aveva approvato una mozione che avrebbe impegnato la sindaca Raggi ad assicurare lo sgombero del palazzo. Interpellato il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef, da cui dipende l’Agenzia del demanio), questo aveva risposto che lo sgombero dell’edificio fosse di competenza della prefettura, ma almeno ha presentato l’esposto in Procura dal quale è partita l’indagine che ha portato al sequestro. Tuttavia è rimasto il “nodo” prefettura: nel corso degli anni sono state stilate delle liste degli edifici da sgomberare, ma non è mai figurata la sede di CasaPound in quanto ritenuta non prioritaria secondo le normative sugli sgomberi avvicendatesi nel corso del tempo.

Gli infiniti rimpalli di responsabilità e il danno all’erario

Quando ci fu l’occupazione era il Miur ad avere in uso il palazzo, ma non aveva suoi uffici. Proprio per questo nel 2004 il ministero avrebbe voluto riconsegnare l’edificio «per cessate esigenze istituzionali» all’Agenzia del demanio, che ha però respinto la richiesta proprio per l’occupazione da parte di CasaPound. Entrambi gli enti avrebbero più volte richiesto lo sgombero, ma l’impressione è che entrambi se ne siano disinteressati, complice un clima di inerzia generale.

Lo dimostra il fatto che, nel dicembre 2019, la Corte dei Conti ha citato in giudizio per un danno erariale di oltre 4,6 milioni di euro dirigenti del Miur e dell’Agenzia del demanio, che non hanno riscosso i canoni dagli occupanti dell’edificio di via Napoleone III e non si sono attivati nel richiedere lo sgombero. La Corte infatti ha sottolineato che l’immobile «è un bene di proprietà dello Stato appartenente al patrimonio indisponibile» e, come tale, non può essere “espropriato” da privati cittadini senza alcun titolo.

La propaganda di CasaPound contro l’assegnazione di case popolari ai rom

Paradossalmente una delle più strenue battaglie di CasaPound è stata quella contro l’assegnazione (legittima) di case popolari a famiglie rom. Sono noti i fatti avvenuti nell’aprile 2019 a Torre Maura e, nel maggio successivo, nel quartiere di Casal Bruciato, dove per due volte presidi del movimento, con insulti e minacce anche di morte, hanno impedito alle famiglie di quest’etnia di occupare gli appartamenti ai quali avevano diritto.

Particolare è stata una certa connivenza delle forze di polizia, intervenute per mantenere l’ordine, che non hanno allontanato gli attivisti nonostante i presidi non fossero stati autorizzati. Di contro, larga parte dei residenti del quartiere non ha partecipato alle iniziative neofasciste contro i rom, ed anzi le hanno contestate. Il che fa riflettere sulla presunta base sociale ed elettorale di CasaPound nelle periferie; sembra infatti che non sia appoggiato da realtà disagiate, ma piuttosto che sia lo stesso movimento a creare disagio tramite le proprie iniziative, per produrre conflitto sociale accrescendo la fascinazione per la sua propaganda. Un consenso fondato su una solida presenza mediatica piuttosto che su un concreto appoggio popolare.

I dubbi su uno sgombero in tempi brevi. Ma quando sarà fatta giustizia?

Nonostante il sequestro preventivo, lo sgombero non sembra essere imminente. La sindaca Virginia Raggi ha nuovamente richiesto l’intervento della prefettura, tuttavia e ancora una volta le priorità sono altre: sgomberare gli immobili pericolanti. Inoltre a causa dell’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus non si potranno eseguire sfratti fino al 1 settembre prossimo. Dunque al momento il sequestro è solo un atto formale. Sembra inoltre vacillare anche uno dei due capi d’imputazione per gli indagati – l’associazione per delinquere con lo scopo dell’odio razziale. Secondo il gip di Roma che si sta occupando della vicenda, i vari presidi e manifestazioni indetti negli anni da CasaPound non testimonierebbero la presenza di una realtà associativa col preciso scopo di seminare odio razziale.

Fra inerzie, rimpalli di responsabilità e connivenze, la vicenda della sede di CasaPound rimane molto grave. Il movimento ha avuto mano libera per più di un decennio per agire nella più totale illegalità, occupando abusivamente un palazzo di proprietà statale e non pagando i canoni nonostante l’assenza di condizioni di povertà. È proprio questa vicenda che testimonia l’ipocrisia della propaganda neofascista: dichiararsi dalla parte degli “ultimi” vivendo da pascià in un immobile di pregio. A dimostrazione del fatto che l’obiettivo di CasaPound non è garantire giustizia sociale (che peraltro sarebbe riservata ai cittadini con retaggio italico), ma esacerbare gli animi in realtà disagiate e “vedere l’effetto che fa“. Purtroppo continuerà a farlo, non si sa esattamente per quanto ancora, da un palazzo di sei piani e di proprietà dello Stato, nel pieno centro di Roma.

Raffaella Tallarico

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