Roberto Calasso ritratto da Tullio Pericoli. Fonte immagine: https://www.nybooks.com/articles/2019/09/26/roberto-calasso-terrorists-tourists-robert-frost/

«È un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi». (Roberto Calasso – Bobi)

Quando parliamo di Roberto Calasso ci troviamo di fronte a un enorme dilemma: di cosa parlare? Della sua vastissima opera letteraria – “Letteratura assoluta” si intitola il saggio di Elena Sbrojavacca a lei dedicata – che spazia dalla mitologia greca o indù (“Le nozze di Cadmo e Armonia”, “Ka”, “L’ardore”) a Kafka (“K.”) o la “Folie” Baudelaire, e molto altro ancora? O della sua ancora più immensa opera da direttore editoriale per quella che è l’ammiratissima casa editrice Adelphi? Ci troviamo in entrambi i casi scagliati in una materia multiforme e vertiginosa, tanto erudita quanto refrattaria ad essere incasellata. Scegliere è dunque difficile. Ma è necessario farlo? Non stiamo – forse – parlando di un tutt’uno?

Roberto Calasso è morto a ottant’anni con un’uscita di scena che ha il sapore della chiusura perfetta di un cerchio, ovvero con la pubblicazione di due, ultimi libri; anche Leonardo Sciascia morì il giorno stesso in cui “Una storia semplice” (pure quello pubblicato da Adelphi: tutto torna) usciva in libreria, come fosse un testamento, un messaggio meditato a lungo e irrevocabile; un ultimo messaggio è dunque anche quello di Calasso, che mette in chiaro, definitivamente, come mai disgiungere l’opera dello scrittore da quella dell’editore sarebbe controproducente: perché morire il giorno in cui escono ben due libri potrebbe sembrare lo scherzo del destino, non fosse per la perfetta coerenza dietro quella che è stata una missione durata tutta una vita; una vita fatta di libri, gli unici messaggeri – assieme agli dèi – cui Calasso sembrava essere interessato, e una missione semplice solo a parole ma che deve scontrarsi con le esigenze – i compromessi, le necessità, i trasformismi – della realtà: l’obiettivo era fare “solo i libri che ci piacciono molto” per usare l’espressione di uno dei fondatori della Adelphi, Roberto Bazlen, detto affettuosamente Bobi. E proprio a Bobi è dedicato uno dei due libri di Calasso (l’altro è “Memè Scianca”), il cui carattere eccezionale non è dato solo dall’uscita nelle librerie in sincronia con la dipartita dell’autore, bensì dal loro essere intrinsecamente autobiografici, intimi come mai prima per uno scrittore che ha sempre evitato di parlare di sé stesso – preferendo concentrarsi su altri scrittori e temi di portata vastissima.

Calasso - Bobi

Bobi è dunque “l’imprendibile” Roberto Bazlen, triestino di nascita, scrittore imprevedibile e figura di maestro/sciamano per Calasso (che non ama la parola “sciamano” ma per una volta la usa): con questo breve testo ne omaggia il genio. La lungimiranza di Bazlen è quella che getterà le basi della futura Adelphi, col suo blocco di libri di qualità dallo stile inimitabile: in due paragrafi illuminanti (ma tutto il libriccino lo è, dalle polemica con Montale all’analisi di Bazlen su Freud ultimo patriarca), Bobi spiega il motivo per cui l’appeal snob della Adelphi ci appare oggi così amabile. Il primo è una dichiarazione di intenti sulla nascita della collana principale della casa editrice, la Biblioteca:

Per lui, essenziali erano quelli che chiamava libri unici – e potevano avere forma di romanzi o memorie o saggi o, in breve, di qualsiasi altro genere. Ma comunque dovevano nascere da un’esperienza diretta dell’autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spiccasse, solitario e autosufficiente.

Il secondo è il modo in cui libri diversissimi tra loro istituiscono un imprevedibile rapporto sotterraneo:

«La via del pellegrino: l’hai visto? Se ti piace, andrebbe molto bene, mi pare, pubblicarlo assieme al Solitary Confinement [Cella d’isolamento di Christopher Burney] e al Gosse [Padre e figlio di Edmund Gosse], e a un quarto possibilmente molto diverso, se Dio ce lo butta sulla nostra strada».

Attenzione però: “Bobi” non è un libro che racconta la storia della Adelphi. Quello Calasso lo ha già scritto parzialmente anni fa e si intitola “L’impronta dell’editore”. D’altra parte Bazlen morì nel 1965, facendo giusto in tempo a vedere solo la copia finita del primo volume della Biblioteca, “L’altra parte” di Kubin (“libro a cui teneva molto non solo perché era il più bel Kafka prima di Kafka, ma perché «l’altra parte» era il luogo stesso dove Adelphi si sarebbe situata”). “Bobi” è invece la rievocazione di una nascita e di una iniziazione: la nascita di un’amicizia discreta, l’iniziazione a un nuovo modo di pensare i libri – e quindi il mondo, trovandovi affinità impensate su cui poi “collegare i punti, talvolta lontanissimi”. Per questo motivo Adelphi può essere forse l’unica casa editrice che non perde di credibilità nell’accostare, in un catalogo vastissimo (dove anche la scienza ha un posto speciale), “Il racconto del Pellegrino” di Ignazio di Loyola alle “Memorie di una maitresse americana” di Neil Kimball, come se i due avessero un collegamento misterioso che non si esaurisce nella stanca dicotomia Sacro/Profano. E chi li legge in qualche modo lo sa.

L’altra parte del testamento letterario di Calasso è “Memè Scianca”, il suo lavoro più scopertamente autobiografico. L’incipit (ce ne sono tanti, come se il libro fosse un inizio continuo) è quasi un rovescio del classico “Era una notte buia e tempestosa”: Era una notte di fine primavera, mite. Roberto Calasso racconta ai figli Tancredi e Josephine aneddoti sui ricordi d’infanzia di Florenskij, fino a quando entrambi, incuriositi, non vogliono saperne di più sui ricordi d’infanzia di Calasso stesso. E a quel punto scatta la rievocazione di una Firenze della memoria, dei primi incontri con i libri e la Recherche proustiana, del padre antifascista che evita per un pelo la fucilazione, di tate e madri e nonni, dello Gnao e delle prime rivelazioni erotiche (sempre attraverso i libri). Il tutto è però affrontato in una progressione non lineare giacché “la memoria è fatta in prevalenza di buchi”.
Memoria, già. Il primo libro di memorie Calasso lo scrive a dodici anni, come fosse un bodhisattva che ricorda le vite precedenti. Ne ricorda anche l’inizio: “«L’estate la sentivo arrivare dal viale.” Per settant’anni eviterà di raccontare di sé concentrandosi su miti di ogni cultura o pittori settecenteschi, fino a questo scorcio autobiografico: perché “ciò che ci è più vicino ha bisogno di una via tortuosa per arrivare a mostrarsi”. Alcune rivelazioni, col senno di poi, sembrano quasi scontate, come se nel mondo infantile fossero custodite le direttrici di una vita intera: che dire, ad esempio, del fatto che il padre di Roberto, Francesco Calasso (un giurista di gran fama), lavorando a un imponente tomo dal titolo “I glossatori e la teoria della sovranità”, di fatto stava già suggerendo al figlio futuro scrittore non tanto cosa scrivere ma come farlo? L’opera di Roberto Calasso diverrà una sorta di enorme glossa sterminata, e già allora l’idea “di uno scritto che nasce da un altro scritto, lo rielabora, gli aggiunge qualcosa che prima non c’era, mi sembrava qualcosa da seguire”. È come se in questo piccolo libro color glicine (“Quel glicine fiorito fu il primo colore che contemplai. Lo guardavo soltanto. E l’immagine si è fissata. È ancora nitida.”) si enucleasse tutto ciò che abbiamo letto di Calasso, le sue passioni verso le mitologie orientali ma anche quell’ineffabilità versatile che è refrattaria ad ogni etichetta. Come nasce l’improbabile soprannome – che si mette da solo – di Memè Scianca? Prova a ricordarsene ma fa fatica a capire. Poi, ecco una chiave:

Memè è un soprannome familiare, buffo, come Totò. E Mémé era un soprannome del barone di Charlus. Per i Guermantes era Mémé. Altrimenti lo avrebbero dovuto chiamare con il suo primo nome, l’altisonante Palamède. Ma Scianca? Non mi era chiaro da dove venisse, finché una voce femminile mi disse che lo aveva inteso dall’inizio come un nome indiano: in sanscrito, shankha significa conchiglia, usata per libagioni d’acqua. Se perforata, veniva usata in battaglia per il suono che emetteva, come un corno o una tromba”.
Insomma: nomen omen per chi come nessun altro ha cambiato la cultura e l’editoria italiana. Lasciandoci in dono – coerentemente – ultimi due libri per un addio discreto ed elegante.

Nicola Laurenza

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