"Roccia Artificiale" di Paul Klee. Fonte immagine: https://www.doppiozero.com/materiali/paul-klee-archeologo-della-pittura

Raccontare due vite in un libretto di appena 144 pagine è un’impresa non da poco. Impresa aggravata dal fatto che queste due vite sono quelle di due amici: non personaggi di carta e inchiostro, bensì due persone in carne e ossa, e che ora, per un gaddiano gomitolo di concause, non ci sono più. Ma forse è il destino della letteratura quello di continuare con insistenza a scrivere dei fantasmi della memoria: come ricordava Gustaw Herlingil desiderio che ogni essere umano sente, nel subcosciente, di continuare a esistere nella memoria dei vivi” è il diritto inalienabile di chi muore. L’arma prediletta alla perpetuazione del ricordo sarà la letteratura, più efficiente di una fredda e scostante lapide.
Emanuele Trevi si inoltra nel labirinto del ricordo per ottemperare questo scopo, e in “Due vite” riesce nella sua missione: richiama con le arti necromantiche della scrittura le figure di Rocco Carbone e Pia Pera. Amici di una vita intera, scrittori legati da un’amicizia intensa, entrambi morti prematuramente a causa di un fato avverso, e che nel libriccino di Trevi (candidato al premio Strega 2021) si ritrovano a bisticciare o scherzare nuovamente. “Due vite” (Neri Pozza) è un aureo memoriale che scava nell’infelicità di Rocco e nella determinazione di Pia. Ma il titolo potrebbe essere fuorviante perché le due vite in realtà saranno tre: la terza, implicita, è quella dello stesso Trevi, messosi a nudo di fronte al dolore per rielaborare il trauma di una doppia perdita devastante.

Frugando nella ferita ancora pulsante del ricordo Trevi scova vecchi episodi affettuosi, discussioni appassionate o insormontabili attriti caratteriali. La difficoltà sta nel bilanciare il lato più personale con quello distaccato del biografo; per questo Trevi asciuga ogni possibile straripamento di sentimentalità: in “Due vite” è la scrittura stessa ad essere raccolta e meditativa, si fa diga contro ogni possibile cedimento alla divagazione narcisistica. Circoscrivere l’unicità dei caratteri di Pia e Rocco: questo è ciò a cui Trevi mira; rievocare le loro lotte con la malattia e il mondo, con la propria vita o la letteratura russa, così come le pretese di affettività esclusive o di allargare il proprio giardino fino a inglobare i propri affetti. Un metodo di lavoro biografico necessario ma difficilissimo, giacché come scrivi Trevi “più ti avvicini a un individuo, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri. L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità”.

Due vite

Ma come accennato, “Due vite” è anche affine a una seduta di necromanzia. È lo stesso Trevi a dirlo in modo esplicito: “Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. […] Di una cosa sono sicuro: mentre scrivo, e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. […] Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta”.

L’idea del racconto (e della scrittura) come proroga per la morte, o farmaco capace di sconvolgere lo status quo portando a una sospensione delle naturali leggi fisiche, è antica. Il più grande delirio letterario del XX secolo è il Finnegan’s Wake di James Joyce: titolo tratto da una vecchia ballata irlandese in cui il muratore Finnegan casca da una scala ubriaco per poi risvegliarsi di colpo durante la propria veglia funebre, colpito da un bicchiere di whiskey, incitando tutti gli amici lì raccolti a tracannare alla propria salute. Nel suo romanzo Joyce ricrea il mondo e il linguaggio come fossero una sorta di resurrezione (o genesi) contro la morte, delineando possibilità infinite di storie e racconti: la morte non ha più dominio.
Ma Trevi conoscerà di sicuro l’usanza balinese di raccontarsi fiabe durante la veglia del defunto. I balinesi le raccontano ininterrottamente, per giorni di seguito, perché è il periodo più delicato per la salma: quello in cui i demoni cercheranno di possederlo. Il potere di queste storie, narrate le une dentro le altre come fossero scatole cinesi, è tale che creano una fortificazione alla salma: il demone sbatte contro questi muri narrativi non riuscendo a oltrepassarli, fino a quando non potrà fare altro che andarsene via a mani vuote. Come scriveva Robert Darnton ne “Il grande massacro dei gatti”: “La lettura non diverte, non istruisce, non rende migliori, né aiuta a passare il tempo: grazie al fitto intrecciarsi della narrazione e alla cacofonia dei suoni, protegge le anime”.

Potremmo riallacciare “Due vite” a “Finnegan’s Wake” finendo di costruire – anche noi – questo labirinto di memoria e fortificazioni della parola citando per l’ennesima volta Trevi:

C’è un personaggio minore dell’Odissea che mi ha sempre commosso, un compagno di Ulisse chiamato Elpenore. Appare nel poema giusto il tempo di uscirne in modo catastrofico poche sillabe dopo. Liberi dai sortilegi di Circe, i Greci sono finalmente pronti a riprendere il mare. Elpenore viene richiamato mentre dorme dopo i festeggiamenti, smaltendo la sbronza sul tetto di una casa. Si sveglia, ma non ricordandosi dove si era sdraiato, invece di usare la scala precipita dal tetto e muore sul colpo. Splash – come un fumetto. Hai partecipato alla guerra di Troia, hai seguito Ulisse in tutte le sue traversie, navigando su mari scossi dalla collera del dio del mare in persona, e vai a finire così. Non c’è nemmeno il tempo di piangerlo, il povero Elpenore. Bisogna ripartire prima che quella vecchia pazza di Circe ci ripensi. Elpenore è un grande tocco d’artista di Omero. Perché nessuno più di lui incarna l’umano. Capita agli uomini di uscire all’improvviso dalle loro storie per una momentanea, irrisoria distrazione, una minuscola sfiga. Qualcosa che non c’entra nulla e prevale su tutto il resto. Da quel momento, l’onda d’urto dell’assurdo procede a ritroso investendo tutto il passato, fino al primo giorno”.
Affine all’ubriachezza – e caduta – di Finnegan, lo schianto di Elpenore è paradigma di ogni uscita di scena causata da un’inezia, da un incidente stupido: due vite, anche le loro, simbolo di tutte le altre – delle nostre, di quelle di Rocco e Pia. Nella speranza che maestri di sensibilità e scrittura siano capaci di farci tornare in vita anche se solo per poco, ridando voce a chi non l’ha più.

Nicola Laurenza

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