Federico Poggipollini, quando il rock incontra il varietà
Fonte: Sfera Cubica

Chitarrista mai sottotono dalla preparazione sublime e accurata, il musicista e cantautore bolognese Federico Poggipollini ha dato ancora una volta grande prova di notevole estro e di un’esponenziale crescita a livello qualitativo maturata nell’arco di una vita sul grande palcoscenico: sulla scia di “Città in fiamme”, il nuovo singolo “Varietà” svela un altro tassello dell’album “Canzoni Rubate”, atteso il 26 marzo.

La musica è in grado di raggiungere il cuore a certe altezze solamente se nata da uno spirito di verità: una canzone è eterna se mantiene intatta l’autenticità con la quale è stata pensata e, successivamente, concepita. È questo il caso di “Varietà”, brano scritto a due mani da Mario Lavezzi e dal maestro Mogol inserito nell’omonimo lavoro discografico di Gianni Morandi, capace ancora oggi di far vibrare d’immortalità le corde dell’anima di chi la ascolta.

In fase di interpretazione, azioni, emozioni, stati d’animo ed intenzioni devono tendere nella stessa direzione. Interpretare un brano ad hoc non è, pertanto, sfida da poco come si suol credere: al di là di una tecnica impeccabile, è necessario possedere doti interpretative e comunicative non indifferenti. Lasciatosi ammaliare dal messaggio emozionale e guidato dall’esigenza di esprimere la propria urgenza interiore, Federico Poggipollini, coadiuvato dallo stesso Gianni Morandi, ha deciso di rendere omaggio con una personalissima cover in salsa rock agli straordinari autori e allo storico interprete che hanno fatto di “Varietà” un evergreen della musica nostrana.

La copertina dell’ultimo singolo di Federico Poggipollini in featuring con Gianni Morandi ”Varietà”

Ecco quanto raccontatoci da Federico Poggipollini stesso nella nostra intervista telefonica:

Come chi da anni ti segue nel tuo percorso musicale ben saprà, il comune denominatore della tua carriera a 360 gradi è l’incommensurabile amore per la chitarra, fedele compagna sempre presente al tuo fianco. Federico, quando hai avuto modo di imbracciarla per la prima volta e quale è stato, a primo acchito, l’approccio al tuo strumento prediletto?

«Ciao a tutti, vi ringrazio per lo spazio concessomi! In realtà, il primo strumento con cui ho avuto modo di cimentarmi da bambino è stato il pianoforte, su consiglio di mia madre, anche lei grandissima appassionata di musica. All’età di all’incirca nove/dieci anni, presi lezioni da un musicista orientato principalmente su generi quali rock e blues: fu così che la mia impronta classica venne un po’ meno. A seguito dell’ascolto di artisti quali Elvis Presley, Little Richard e i Beatles (in casa Poggipollini avevamo svariati dischi di questi mostri sacri del rock ‘n roll) e ai miei studi in ambito musicale, mi innamorai follemente di questa tipologia di musica che sentivo – e tuttora sento – più affine alla mia personalità. Dato che il maestro era anche bassista, ne approfittai per prendere un paio di lezioni. Una volta imparate le tecniche basilari, andai avanti a suonarlo da autodidatta fino ad apprendere i segreti più reconditi del basso. Fu così che divenni bassista dei Tribal Noise prima e, successivamente, pianista dei Radio City. Il chitarrista del secondo complesso del quale feci parte, fu chiamato per la leva militare e per un periodo venne meno ai suoi impegni musicali: non ci pensai due volte a prendere in mano la chitarra. Da quel momento in poi, compresi che era lo strumento più adatto a me in quanto mi consente mi esprimere al meglio in note la mia personalità e il mio ideale di libertà.»

Nel corso di quello che stato ad ora il tuo percorso artistico, non si può di certo negare che hai avuto modo di vivere le più disparate esperienze, reinventandoti sempre in vesti nuove. Come sei riuscito a vincere le sfide più grandi, ossia quelle con te stesso?

«Il fatto che ne abbia provate di cotte e di crude, dipende, dal mio amore per la musica in tutte le sue forme. Ritengo fondamentale scavare a fondo, andare a riscoprirne le radici, oltreché sperimentare senza porsi alcun limite. Come vi accennavo prima anche il mio carattere e forza interiore, hanno fatto il loro: il forte desiderio di essere il chitarrista di una band, di apprendere nozioni da chi mi circonda e di far emergere le mie idee mi ha portato ad essere ciò che sono stato e ciò che oggi sono. Pur sentendomi pienamente a mio agio coi Litfiba e con Ligabue con i quali ho vissuto avventure indimenticabili, ad un certo punto ho sentito un richiamo dall’alto: perché non tentare la svolta da solista? Non metto in dubbio che essere strumentista e condurre un progetto musicale proprio sono esperienze professionali e di vita totalmente diverse, ma la cosa non mi spaventa: era un brivido che dovevo provare a tutti i costi per sentirmi pienamente realizzato e in pace con me stesso.»

Arrivando all’oggi, nella tua ultima fatica discografica “Canzoni Rubate” hai, in un certo senso, agito da abile sarto, cimentandoti nell’ardua impresa di vestire in abiti “poggipolliani” brani passati alla storia. Da cosa è scaturita l’idea? Come è avvenuta la sua messa in pratica?

«Ponendoci la prerogativa di dar nuova vita a brani del passato ingiustamente finiti nel dimenticatoio, Michael Urbano (mio attuale produttore ed ex batterista di Ligabue) ed io avevamo inizialmente intenzione di fare una raccolta di al massimo cinque canzoni. Ascoltando insieme vari pezzi ci siamo lasciati prendere la mano, fino ad arrivare a diciassette tracce compresi gli intramezzi che fanno da collante. Migliorare un qualcosa che di per sé è molto bello di suo- parliamo di capolavori di Cimini, Finardi, Faust’O, Lavezzi, Mogol e via dicendo – richiede un grande sforzo: è stato sì un lavoro a dir poco maniacale a livello di arrangiamento, stesura, produzione artistica, ecc. ma ne è valsa sicuramente la pena viste le soddisfazioni che mi sta dando. Dal momento che ho cercato di allontanarmi quanto più possibile dall’editing per promuovere sonorità più pure, lo ritengo un disco che si discosta da quanto oggigiorno siamo abituati ad ascoltare; d’altronde, è questo lo spirito “poggipolliano” !»

In riferimento all’ultimo dei tuoi singoli pubblicati “Varietà”, vorrei farti i complimenti, oltreché per l’interpretazione, per il coraggio dimostrato: non è da tutti apportare modifiche ad un testo scaturito dalle penne e dai geni dei maestri Lavezzi e Mogol. Se Gianni Morandi si è dimostrato entusiasta della versione targata Federico Poggipollini prestandoti addirittura la propria voce, quali sono state le reazioni di chi il brano lo ha scritto?

«Per quanto riguarda nello specifico “Varietà”, ho ritenuto opportuno intaccare alcune parti originali con l’obiettivo di renderla più moderna e di maggiore piglio su un pubblico giovane: un componimento di tale spessore merita di essere conosciuto anche dalla nuove generazioni. Al di là del fatto che da tempo coltivo un sincero rapporto di amicizia con Morandi, ho ritenuto corretto, essendo una canzone portata da lui portata in auge, fargli avere una bozza: la sua freschezza lo ha colpito nel profondo convicendolo ad interpretare sia la parte vocale che il videoclip. In aggiunta ai complimenti di Gianni, mi sono arrivati via messaggio anche quelli di uno dei due compositori, ovvero Mario Lavezzi, il quale ha sottolineato che la mia versione gli ha dato una forte carica riportandolo alle sue radici e agli ascolti giovanili.»

Un’ultima curiosità: da cosa deriva lo pseudonimo Capitan Fede?

«Questo nomignolo risale al 1994, anno in cui entrai a far parte della band del Liga. Durante le registrazione del suo quinto album “Buon compleanno Elvis”, Luciano stesso attribuì scherzosamente ad ognuno di noi dei soprannomi, vale a dire Mel Carpenter, Robby Sanchez Pellati, Rigorino Righetti e al sottoscritto Capitan Fede. In fase di uscita del disco, mi chiese addirittura se potesse attribuirmi, di fianco alla voce chitarrista, in via definitiva tale nome d’arte: vuoi per non deluderlo, vuoi per altro acconsentii. Ed è così che ancora oggi sono conosciuto a molti, senza alcun merito marinaresco, come Capitan Fede anziché come Federico Poggipollini (ride).»

Vincenzo Nicoletti

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