Il colpo di stato in Myanmar e una democrazia troppo fragile
Il colpo di stato in Myanmar. Fonte immagine Il Manifesto

Il primo febbraio in Myanmar, una fragile democrazia tra il subcontinente indiano e la Thailandia, l’esercito ha compiuto un colpo di stato. La leader del partito di governo, Aung San Suu Kyi, è stata arrestata e i generali hanno dichiarato lo stato d’emergenza del Paese, interrompendo le linee telefoniche nella capitale Naypyidaw, sospendendo le trasmissioni della televisione pubblica. Durante il golpe anche la rete internet è stata interrotta, e alcuni osservatori hanno ipotizzato che la giunta militare abbia sospeso Facebook per contenere il dissenso.

Il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, ha spiegato il colpo di mano asserendo che le elezioni dello scorso 8 novembre sarebbero state falsate da brogli e irregolarità, i quali la commissione esaminatrice non aveva riscontrato. Per la “salvezza della nazione”, ha dunque deciso di prendere il potere.

Le elezioni, le seconde dalla fine del regime militare nel 2011, erano state vinte dalla Lega nazionale per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi, leader controversa ma molto popolare nell’ex Birmania, che aveva ottenuto 368 seggi su 434. Mentre il principale partito dell’opposizione, il Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’Unione (USDP), sostenuto dall’esercito, si era fermato a 24 seggi, per altro assegnati d’ufficio dalla controversa legge elettorale.

Storicamente, i militari (Tatmadaw) hanno sempre fatto parte della vita politica del Myanmar. Hanno guidato la rivolta verso l’occupante giapponese prima e quello britannico poi, e successivamente ad una parentesi democratica hanno detenuto il potere per decenni, dal 1962 al 2011. Addirittura il padre dell’attuale capo del governo, il generale Aung San, è caduto a causa di un fallito golpe militare in cui ha perso la vita. Da almeno dieci anni, però, sembrava che le cose in Myanmar stessero cambiando. Questo fino al primo febbraio.

Chi è Aug San Suu Kyi, l’anima del Myanmar

Dopo la presa di potere da parte dell’esercito, Aung San Suu Kyi, leader del governo del Myanmar, è stata arrestata e portata in carcere. Quella del capo del governo locale è una figura molto controversa ma centrale per la storia del Paese da più di 30 anni. Ha guidato la transizione verso la democrazia a partire dal 2011, ha vissuto per ben 19 anni in isolamento forzato, è stata prigioniera politica e ha vinto il premio Nobel per la Pace.

La giovane Suu Kyi, dopo un lungo soggiorno nel Regno Unito dove studiò filosofia, politica ed economia, tornò in patria a causa dei problemi di salute della madre e cominciò a interessarsi da vicino ai problemi della sua patria. Alla fine degli anni ’80 i movimenti studenteschi avevano dato nuova ninfa alle proteste in un Paese che viveva il giogo della dittatura militare da quasi 30 anni. Suu Kyi si fece coinvolgere dalle proteste per la democrazia e, su spinta di ex militari, intellettuali e studenti, decise di formare e guidare un nuovo partito: la Lega nazionale per la Democrazia. Il suo attivismo politico le costò il carcere.

Nel 2010 il regime militare aveva cominciato a intraprendere una lenta transizione verso la democrazia, indicendo le prime elezioni dopo vent’anni. Suu Kyi fu eletta nel 2012, diventando capo dell’opposizione ai militari, e annunciò che tre anni dopo si sarebbe candidata per la presidenza. Alle elezioni generali del 2015 il suo partito ottenne la maggioranza assoluta ma una clausola inserita nella Costituzione del 2008 le impedì di candidarsi alla presidenza del Myanmar: chiunque avesse sposato un cittadino straniero non poteva concorrere per quella carica. La giovane leader trovò comunque una soluzione creando per sé la carica di consigliere di stato.

Fino al suo arresto di qualche giorno fa, ricoprì anche la carica di Ministro degli Esteri, condividendo il potere con i militari che detenevano, per Costituzione, le cariche alla Difesa e all’Interno. Ma la sua carriera non è solo luci, vi si possono ravvisare anche molte ombre. Durante i suoi cinque anni di governo, Suu Kyi ha deluso le aspettative di molti elettori. Si dice che sotto il suo governo la transizione verso la democrazia si sia decisamente arenata piuttosto che decollare: negli ultimi anni la stampa è diventata meno libera, anche a causa della repressione del dissenso di molti giornalisti che hanno cercato di raccontare la persecuzione delle varie etnie.

Suu Kyi, in particolare, è stata accusata di aver dapprima ignorato e poi giustificato la persecuzione della minoranza rohingya da parte delle forze armate. I rohingya sono musulmani in un Paese a maggioranza buddhista, e sono tra le minoranze più perseguitate al mondo. Dal 2017 centinaia di migliaia di persone furono uccise, decine di migliaia le donne stuprate e il resto della popolazione rohingya fu costretta a rifugiarsi in Bangladesh, un quella che è stata una vera e propria pulizia etnica.

Il consigliere di stato ignorò la situazione fino a quando non divenne troppo grande per tacere. Dapprima difese i militari, poi adottò la linea di difesa dal terrorismo islamico e infine si presentò davanti al Tribunale dell’Aia sostenendo l’infondatezza delle accuse della comunità internazionale, che parlava di genocidio, denotazione frutto di “un incompleto quadro della situazione interna“. I politologi sono divisi sulle responsabilità di Aung San Suu Kyi, insistendo che la sua connivenza con i militari sia stata indirizzata a garantire la stabilità della fragile democrazia del Myanmar.

Il colpo di stato

Il capo di accusa ufficiale dei militari nei confronti di Suu Kyi è quella di “essere in possesso di dispositivi radio illegali”, trasgredendo la legge sull’importazione. In molti hanno sottolineato come quest’accusa non sia nient’altro che un pretesto. Fatto sta che il leader del Myanmar rischia almeno tre anni di carcere.

Il responsabile del colpo di stato è il generale Min Aung Hlaing, 64 anni e capo delle forze armate dal 2011. In ossequio al suo ruolo, il generale fu coinvolto negli scontri del 2017 tra le truppe birmane e i ribelli rohingya, che lui stesso non considera birmani, tanto da pubblicare continuamente tweet incitanti all’odio e per questo motivo è stato bloccato sul celebre social network.

I commentatori di politica internazionale ritengono che Suu Kyi sia ormai fuori gioco e che sarebbe più utile cercare di capire cosa abbia spinto i militari a compiere questo azzardo. La posizione dell’esercito nella politica locale in Myanmar rimaneva molto forte anche in democrazia: come già sottolineato, i tre principali ministeri (Sicurezza, Interno e Difesa) sono de iure nelle mani degli ufficiali, così come il 25% dei seggi nel Parlamento. Inoltre, i generali, che controllano i settori chiave dell’economia, erano i principali destinatari degli investimenti delle multinazionali americane, giapponesi, sudcoreane, oltre a molti miliardi di Pechino spesi per la Via della Seta, ed erano riusciti a ripulire la propria immagine internazionale. Un patto che sembrava vantaggioso per tutti, infranto alla luce del sole. Perché?

I motivi che avrebbero spinto a rompere questa contraddittoria alleanza sono molteplici. In primis il ruolo dell’esercito nella società birmana. I civili odiano le forze armate e il loro potere e a dimostrarlo ci sono state proprio le elezioni di novembre, dove il partito dei militari è riuscito a ottenere solo i seggi garantiti a prescindere dalla volontà popolare. Secondo alcune fonti, Min Aung Hlaing sarebbe preoccupato del suo futuro personale e l’eclissarsi graduale della presa dell’esercito nella politica locale. La democratizzazione ha favorito la vittoria di Suu Kyi e le forze armate, una vera e propria casta, non accettano la sconfitta.

Un colpo di stato, comunque, avrà conseguenze negative per i militari da molti punti di vista. Joe Biden ha condannato il golpe e ha minacciato di applicare o estendere le sanzioni al Paese, ritirate nel 2011. Anche il livello degli investimenti stranieri in Myanmar potrebbero precipitare, ad eccezione probabilmente di quelli cinesi. Il dragone ha posto il veto sulla risoluzione delle Nazioni Unite che avrebbe condannato il colpo di stato: i due Paesi sono molto legati da relazioni politiche ed economiche profonde, tanto che la ex-democrazia è stata destinataria di numerosi fondi cinesi per la costruzione di infrastrutture come la diga di Myitsone e il porto di Kyaukphyu. La Cina non fa nulla per nulla: il porto darà accesso al mare all’importante provincia cinese dello Yunnan, proprio al di là del lungo confine birmano, consentendo alla flotta mercantile e militare cinese di svincolarsi dallo Stretto di Malacca, presidiato dagli americani.

Detto ciò, il colpo di stato ha radici interne e Pechino è poco coinvolta, dato che i cinesi da anni dialogavano fruttuosamente proprio con la destituita Aung San Suu Kyi. L’unico interesse del dragone è quello di preservare i suoi interessi politici ed economici e usare il Myanmar per estendere il suo soft power nel Sud Est asiatico. Dal canto suo, la Cina ha ribadito la sua amicizia con i birmani.

Gli accadimenti delle ultime ore, dimostrano che il colpo di stato in Myanmar non è stato digerito dalla popolazione locale, la quale sta pacificamente protestando, come richiesto dai movimenti democratici. Il colpo di stato può essere letto attraverso una duplice analisi. Innanzitutto, l’attualità dimostra quanto la democrazia birmana, e in generale quella di tutti gli stati del Sud-Est asiatico, sia ancora una democrazia in trappola, minacciata dallo strapotere di potentati e corpi militari che hanno ancora l’ultima parola sulle scelte della società civile. La lunga storia di colpi di stato militari, lo dimostra. D’altra parte è importante sottolineare come questa volta sarà molto difficile per i generali mantenere il potere, soprattutto dopo che i cittadini hanno conosciuto i vantaggi di una transizione democratica che ha promesso loro libertà politiche mai avute prima.

Donatello D’Andrea

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