Micol Martinez, il sormontamento di dazi e barriere mentali
Fonte: www.micolmartinez.it

Micol Martinez, milanese ma parigina d’adozione, dipinge, scrive versi, recita e, soprattutto, crea musica che veste con menzioni importanti.

Il termine è forse obsoleto, ma come spesso accade rende l’idea: Micol Martinez è una cantautrice. Forse anche “gavetta” è un vocabolo in disuso, tuttavia crearsi un’esperienza non passerà mai di moda. Micol, ad oggi, di strada ne ha fatta parecchia: dopo il successo del primo disco “Copenaghen” e di “La testa dentro”, è al terzo album dal titolo “I buoni spropositi”.

Lungi da esorbitanze e virtuosismi, la voce sommessa di Micol non sovrasta quasi mai il tappeto sonoro, fondendosi leggera con gli strumenti che accompagnano il cantato. Nell’intreccio musicale è l’aggregazione ad emergere, gli arrangiamenti a distinguersi in meglio, le parole a incidere.

Abbiamo incontrato la poliedrica artista nella sua Milano. Di seguito il resoconto della chiacchierata:

I buoni spropositi”, il tuo ultimo disco Micol. Come nasce e a quali urgenze risponde?

«Nasce come sono nati i suoi predecessori: da una profonda esigenza espressiva. Ho una forte propensione per varie forme artistiche, forse perché sono, di base, chiusa e timida. Posso sembrare la persona più socievole del mondo se mi si conosce una sera: quel modo è una parte reale di me. Ma poi, nel tempo, non ho la facilità di aprirmi con le persone. Ho un forte senso di protezione verso me stessa, un filino di sfiducia, a volte, nel prossimo, è un po’ di insicurezza; l’apertura all’altro arriva dopo una forte osservazione del rappresentate umano di turno e un conoscimento lentissimo. Questo mi porta ad aver bisogno di esprimere la mia personalità in altro modo: quello più immediato, nonché congeniale, per me è proprio la musica.»

Perché hai attribuito al tuo più emblematico lavoro in studio il titolo “La testa dentro ”?

«Perché vediamo candidamente le nostre interiora, non guardiamo al di fuori. Si cresce solo se ci si rapporta costantemente con l’esterno, altrimenti si finisce col nutrirsi di sé stessi. Sarebbe pericoloso, no?»

Il primo disco di Micol Martinez “Copenaghen ” è scuro, a tratti introspettivo, questi ultimi due più morbidi, solari, acustici…

«Più malleabili, più divertiti, più vari. È vero e non è stata una scelta di partenza. Forse l’unica decisione iniziale è stata quella di non censurarmi, o censurarmi meno. Ho scritto le canzoni in tempi più sereni; questo si riflette sul mio lavoro. Il risultato sono due album legati al presente, a necessità più immediati, a un futuro immaginato, a volte possibile, a volte sognato. Posso dire che a differenza dell’antecedente, stavolta ho scritto in totale apertura. Questo è manifestato non solo nella scrittura, ma anche nel modo di interpretare i brani. Finalmente ho giocato con tutto: con le parole, con il tempo, con gli accordi e con le sfumature vocali. In particolare, uso la voce in un’altra maniera: nel primo era trattenuta e virata sulle basse, giocando a favore dei brani; stavolta no.»

Nella grafica del tuo primo CD la tua immagine è quasi oscurata e all’interno del booklet lo spazio è dedicato ai testi e ai bellissimi disegni di Robert Herzig. In “La testa dentro ” e “I buoni spropositi ”, finalmente appare, la figura nitida di Micol Martinez. Cosa è accaduto?

«Il tutto è legato all’apertura di cui ti parlavo prima. Il primo CD era, appunto, l’esordio in scena. Da un lato, non volevo dare l’idea di usare la mia immagine, volevo concentrare l’attenzione solo ed esclusivamente sulla musica. Inoltre ero più insicura, emergeva prepotentemente quella volontà di protezione che mi teneva chiusa a riccio. Oggi la faccia la metto in copertina: questa sono io, che vada bene o meno.»

Il fatto che tu sia attrice e disc jockey che ruolo ha giocato in fase di produzione dei tuoi lavori discografici?

«Queste due caratteristiche si sono rivelate fondamentali. Lo studio della recitazione ha influito sulla vocalità: non amo i virtuosismi e chi sale su un palco per dimostrare di cantare bene, bensì chi interpreta i propri brani in maniera personale e sincera. I dj set, che possa piacere ad una determinata fetta di pubblico o no, mi hanno aiutata ad aprire la testa verso il melting pot sonoro che ho sempre desiderato fosse il mio marchio di fabbrica.»

Vincenzo Nicoletti

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