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Fonte: Lettera43.it

Anno nuovo, espulsioni nuove per il M5S; è la volta di Gianluigi Paragone, il quale dopo la cacciata va ad ingrossare la lista nera di un Movimento che perdendo stelle e acquistando dissidenti è in procinto di un’emorragia fatale.

Prima l’astensione dal voto di fiducia al Governo Conte II, poi la votazione contraria alla legge di Bilancio, prim’ancora le critiche al capo politico Luigi Di Maio e poi a qualsiasi decisione del Movimento: questo il modus operandi di Gianluigi Paragone nella sua breve esperienza da senatore pentastellato e le prime due di queste sono le motivazioni con cui il Collegio dei Probiviri gli ha notificato l’espulsione.

«Sono stato espulso dal nulla. C’era una volta il 33%»: ecco la risposta dell’ex pentastellato Paragone, comunicata, peraltro, via Facebook con una fotografia ad una scritta a mano intestata al Senato. Ora, da un lato viene spontaneo chiedersi il perché Paragone abbia aspettato l’espulsione forzata prima di uscire da quel nulla in cui è rimasto per un anno e che comunque gli ha concesso una poltrona in Parlamento, dall’altro perché se non accetta il sistema meschino pentastellato minaccia il ricorso alla giustizia ordinaria per rientrare in quel nulla?

Del resto Paragone è ben noto alla cronaca per essere un personaggio controverso: ha iniziato la sua carriera da giornalista vicino a Bossi e Maroni, è stato vice-direttore di Libero difendendo l’autonomia padana, per poi difendere la propria autonomia prendendo le distanze dalla Lega Nord e passando al M5S da cui è, appunto, stato espulso.

Altro che Savonarola: è un personaggio gattopardesco, che sui social si definisce costituzionalmente ribelle; ribelle nelle dirette sui social, non certo nei confronti del suo scranno in Parlamento, che conserva gelosamente insieme al suo stipendio a cui non ha affatto rinunciato passando, infatti, al Gruppo Misto.

Paragone divide il M5S: nuovi dissidenti in arrivo

Nonostante la scarsa credibilità politica di Paragone, la sua espulsione è emblematica di una stagione di fratture più nitide tra i 5 stelle. La sua espulsione ha riportato a galla i malumori dei pentastellati nei confronti di un Movimento ormai diventato Partito imborghesito, la cui quintessenza non giace più nelle logiche anti-sistema, anti-casta, anti-élite, anti-Palazzo, bensì nell’esigenza di governabilità e per giunta governabilità in un Palazzo a braccetto con quel Partito Democratico che per anni ha accusato di ogni cosa. Una situazione kafkiana, che scuote inevitabilmente la compatezza di un gruppo nato ribelle e alternativo a quell’incoerenza politica in cui sta annegando a loro volta.

L’aggettivo ribelle, del resto, è sempre stato autobiografico nel M5S, tuttavia ora la ribellione non si manifesta più nelle piazze all’insegna del vaffanculismo epistemologico grillino, ma in una ribellione irrefrenabile e intestina al Movimento, tanto da acuire la necessità di porre un po’ di ordine e disciplina in questo caos, con il ricorso a un manicheo Collegio dei Probiviri per giudicare chi è fuori e chi è dentro, chi è onesto e chi no.

A proposito di onestà, l’onestissimo Alessandro Di Battista, uno dei padri fondatori del M5S, ha espresso solidarietà a Gianluigi Paragone affermando «Io con Gianluigi continuerò a lavorare, abbiamo la stessa visione del Movimento, dice quel che ho sempre detto io». Subito è giunta la replica di Luigi Di Maio: «Non siamo un’anarchia» e la contro-replica di Di Battista: «Servono persone che ci mettano la faccia sempre, non a giorni alterni». Accuse e insinuazioni che rendono pubblica la fine di un’amicizia, gli stessi diverbi con cui è iniziata la discesa di un altro Partito: manca solo che Di Battista dica Luigi stai sereno e si faticherebbe a distinguere il M5S dal PD.

Insomma le distanze si allungano tra gli stessi vertici del Movimento, e il rischio di scissioni si concretizza. Da un lato c’è l’asse Paragone-Di Battista, che peraltro si pone sulla scia di una lunga serie di espulsioni: da De Bonis a Gregorio De Falco, dalla senatrice Paola Nugnes a Vono che ha aderito a Italia Viva, a Elena Fattori trasferitasi al Gruppo Misto, alle prese di posizione dell’ex ministra per il Sud Barbara Lezzi, fino al manipolo di senatori (Ugo Grassi, Stefano Lucidi e Francesco Urraro) che solo un mese fa sono passati alla Lega.

Dall’altro lato troviamo la delusione dell’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che lo ha portato alle dimissioni e all’abbandono del gruppo parlamentare pentastellato per confluire in un proprio gruppo parlamentare battezzato Eco. Nel Misto confluiscono anche il deputato pugliese Nunzio Angiola e il deputato lucano Gianluca Rospi, i quali hanno di recente abbandonato il M5S. Motivo? «Scarsa collegialità e scarsa attenzione ai singoli parlamentari» nonché «gestione verticistica e oligarchica del Movimento».

Insomma, un vero e proprio esodo dal M5S, ormai sfilacciato e con numeri sempre più risicati in Parlamento. Un’emorragia che non trova punti di sutura, che anzi prospetta nuovi addi e nuove espulsioni: in virtù della regola della rendicontazione solo il 12% risulterebbe allineato ai pagamenti, e si parla già di una decina di deputati che lasceranno il pentapartito a gennaio.

Nato rivoluzionario, il M5S boccheggia nelle istituzioni. Sarà il virus scissionista di cui è affetto il Partito Democratico ad averlo contagiato o più verosimilmente l’incapacità di governare? Sta di fatto che le beghe di partito stanno regalando consensi a Salvini e Meloni, che aspettano dietro l’angolo la prossima tornata elettorale.

Melissa Bonafiglia

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