Nobel per la Pace, Greta Thunberg, Abiy Ahmed, curdi
Fonte immagine arabpress.eu

Chiariamoci: lungi da me voler sminuire gli altri candidati, il vincitore, e soprattutto l’opera di Greta Thunberg, che forse più degli altri ci si attendeva sul palco di Stoccolma – chi legge questo sito, anzi, sa bene quanta stima e ammirazione nutra nei suoi confronti. Ciò che la giovane svedese ha compiuto nel giro di appena un anno travalica i confini dell’umana meraviglia e assume piuttosto i contorni dell’epopea. Non si discute. E nonostante Greta fosse, per ovvie e condivisibili ragioni, la principale candidata al premio Nobel per la Pace 2019, poi andato al primo ministro etiope Abiy Ahmed, mi permetto per una volta di dissentire; onestà intellettuale mi spinge ad ammettere che se avessimo voluto davvero lanciare un segnale di rottura, perpetuare un messaggio di universale riconoscimento, allora quel premio lo meritavano i curdi.

Certo, non spetta a me giudicare le decisioni di un’istituzione prestigiosa e di antico retaggio come il Nobel per la Pace. Anche quest’anno i candidati al premio erano di indubbio spessore, di ragguardevole caratura umana. C’era Greta Thunberg, naturalmente. E come poteva non esserci: Greta ha convogliato milioni di persone attorno al movimento Fridays For Future per la giustizia climatica. Una roba che riconcilia col mondo (anche se non abbastanza), qualcosa di così stupefacente da superare persino il ’68. E nonostante i detrattori, i complottari da strapazzo e i misogini criptofascisti che preferirebbero vedere una donna a lavare stoviglie, invece che a occuparsi di questioni che trascendono la capacità di comprensione di un qualunque minus habens cresciuto a comizi di Salvini e olio di ricino, Greta ha realizzato un miracolo.

Come hanno saputo palesare al mondo le loro doti morali e intellettuali gli altri principali candidati al premio Nobel per la Pace: Jacinda Ardern, primo ministro neozelandese dalle spiccate posizioni femministe, che ha saputo tenere unita la sua comunità dopo la strage di Christchurch; Abiy Ahmed, il vincitore, primo ministro etiope che ha negoziato una storica pace con l’Eritrea e denunciato la corruzione strisciante nel ceto politico che detiene il potere da oltre un trentennio; l’attivista brasiliano Raoni Metuktire, a capo della tribù Kayapo, una vita spesa a battersi per i diritti degli indigeni mai come ora minacciati dalle folli mire di Bolsonaro. Assieme a loro Papa Francesco, Carola Rackete e uno stuolo di personalità di alto rilievo.

Un parterre di tutto rispetto, quello del Nobel per la Pace 2019, che certo non poteva sollevare scetticismi né tentazioni a rivangare il passato in cerca di assegnazioni a dir poco discutibili – che pure ci sono state. Ma se un pregio andrebbe riconosciuto al premio dovrebbe necessariamente essere il sapersi allontanare dal mainstream, il veicolare l’attenzione mediatica laddove ve n’è più bisogno, il saper valorizzare le esperienze più benefiche al servizio dell’umanità in quanto tale. Il Nobel non è una serie tv a puntate, la sua platea non si abbindola col fanservice. E sebbene non vi fossero dubbi sull’enormità dell’operato di Abiy Ahmed, né sulla fenomenologia dei meriti di Greta Thunberg (fosse solo per ricalibrare l’urgenza della crisi climatica a cui il Nobel per la Pace non dedica spazio dal 2007, quando a vincere furono Al Gore e l’IPCC), ecco allora che va posta un’altra questione più esiziale, più massmediaticamente chiarificatrice.

Abiy Ahmed, Nobel per la Pace 2019
Il primo ministro etiope Abiy Ahmed, vincitore del Nobel per la Pace 2019 (fonte immagine: bbc.com)

Perché se vogliamo dirla tutta sono i curdi i veri portatori di pace degli ultimi anni, grazie alla loro strenue resistenza alle orde terroristiche dell’ISIS, da una parte, e ai disegni criminali di Erdogan, dall’altra. Il popolo curdo, separato da convenzioni geopolitiche e parzialmente riunito nell’esperienza autonomista del Rojava, ora relegato all’abbandono e condannato al massacro dal disimpegno delle forze armate statunitensi e dal vile silenzio di un’Europa terrorizzata dalle rappresaglie del dittatore turco. Se non è abbastanza per conferire ai curdi l’appellativo di vincitori, quantomeno morali, del Nobel per la Pace 2019 allora non riesco davvero a immaginare chi altri dovrebbe meritarlo.

È questa la ricompensa per aver contribuito ad arrestare l’avanzata furiosa del più inverecondo gruppo terroristico che la storia ricordi (dopo l’esercito americano, ça va sans dire)? Pare di sì. Dopotutto la gratitudine, si sa, è appannaggio di poche menti illuminate: per tutte le altre vale il detto business as usual. Ma se la comunità internazionale si prostra all’indifferenza, scaricando il fardello dell’indignazione a comando addosso all’utenza social, mi piace pensare tuttavia che in un mondo piagato dalla disuguaglianza e dalla mania di potere, dall’avidità e dalla crisi climatica, in un mondo che celebra legittimamente gli atti eroici, perché squisitamente umani, di Greta Thunberg, Jacinda Ardern, Abiy Ahmed e Raoni Metuktire, ci sia spazio per ascoltare narrazioni dissonanti. E non mi riferisco certo solo al Nobel per la Pace, ma al velo di Maya sulla nostra ipocrisia. Quella che i curdi non avrebbero meritato, quella che forse non ci scrolleremo mai di dosso.

Emanuele Tanzilli

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