Il tempo nel mondo capitalistico. Chronos o Kairos è una questione di classe sociale
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“Chronos per indicare la natura quantitativa quindi lo scorrere dei minuti…
Kairos per indicarne la natura qualitativa e quindi soggettiva, indeterminata e indefinita” .

Tempo di vacanze. “Stacchiamo la spina”, un modo di dire diffusissimo che fotografa bene un bisogno, una necessità relativa da un lato alla stanchezza che sopraggiunge dopo mesi di ritmi incalzanti della vita quotidiana; dall’altro esprime il bisogno di un tempo che non è solo di riposo ma di una qualità diversa della vita. Sentiamo il bisogno di un tempo kairos, di cui il tempo nella società capitalistica ci ha privato a beneficio dell’interesse di pochi eletti. Se analizziamo il modo di produzione capitalistico e ci chiediamo quale sia uno dei suoi pilastri portanti, viene immediato pensare al mercato, quasi che il mercato coincida con il modo di produzione capitalistico stesso. Eppure il tempo e la sua distribuzione sono altrettanto importanti per comprendere come funzioni il capitale.

Il tempo nella società capitalistica assume connotati completamente nuovi al servizio del capitale depauperando gli uomini e le donne, privandoli di una parte della loro esistenza, quella impegnata nel processo di produzione, e rimodellandone la restante per renderla funzionale alla nuova società industriale. “Alla società industriale non bastava infatti che il tempo fosse misurato con la massima esattezza: bisognava che fosse interiorizzato, cioè che le abitudini di vita fossero disciplinate e gli abiti mentali condizionati secondo i ritmi dell’industria” (Aris Accornero, Il mondo della produzione, 1994).

L’esigenza di misurare lo scorrere del tempo è antica, ma è il capitalismo a fornirgli una dimensione  sociale che serviva e serve a condizionare lo scorrere del tempo in funzione del lavoro. Un lavoro che produce profitto per il capitalista e che risulta alienato per il lavoratore. Fino alla rivoluzione industriale il tempo era prevalentemente scandito da ritmi dettati dalla natura, come nell’agricoltura; e dalle diverse necessità di sussistenza. La vita della comunità preindustriale scorreva lasciando spazio a momenti di socialità e condivisione, eppure l’alienazione era già operante. “Nel lavoro agricolo il contadino ha un rapporto diretto con la terra, ma il germe dell’alienazione è già presente nella società precapitalistica quando si concentrano le terre nelle mani dei signori feudali, si realizza definitivamente attraverso quella che Marx più tardi definirà l’accumulazione originaria, ossia il processo di privatizzazione delle terre e di proletarizzazione dei contadini” (Marxismo ed ecologia, J. N. Bergamo, pag.63, 2022). Quindi non si tratta di fare ritorno alla vita rurale, ma di rendere esplicito l’impatto che il modo di produzione capitalistico ha avuto ed ha sulla vita delle persone subalterne ad essa, evidenziando il modo del tutto peculiare, rispetto alle forme di organizzazione sociali precedenti, in cui essa plasma il tempo.

La  nuova società industriale detta tempi e ritmi della vita quotidiana. La giornata viene allungata in modo artificiale, l’esigenza di incrementare la produzione fa aumentare le ore di lavoro. Il tempo deve essere risparmiato e speso come il denaro. È interessante l’ipotesi avanzata da M. Weber, nel celebre testo “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Weber ravvede nello spirito della laboriosità calvinista elemento di interdipendenza tra questa e lo sviluppo del capitalismo. Con la sua esaltazione dell’operosità, della puntualità, della disciplina e la moralizzazione degli interessi, che divengono il simbolo, nella vita terrena, del favore divino, l’etica protestante precipita il tempo kairos in un tempo chronos, un tempo nuovo, che il capitalismo tramuta in profitto. Ma la relazione di questo abbraccio mortifero non è di causa ed effetto; piuttosto è di relazione opportunistica, che è tipica del capitalismo, che sa sfruttare le condizioni pre-esistenti, permearle e svilupparsi.

Ne è un esempio chiaro il neoliberismo, la forma avanzata del capitalismo, che assume forme variegate nelle diverse parti del mondo, fagocitando strutture socioeconomiche pre-esistenti per renderle atte ai propri interessi. Ma è con la visione marxista che si comprende appieno la relazione tra il tempo e il modo di produzione capitalistico. Il lavoratore scambia parte del suo tempo per la sussistenza. Il capitalista attraverso la produzione delle merci estrae un plus tempo (che non viene retribuito al lavoratore) che diviene plus-valore, quindi profitto. Di questo plus-valore il lavoratore che lo la ha prodotto, dice Marx, non beneficia in alcun modo.

Con la seconda rivoluzione industriale, nel lavoro di fabbrica, Taylor prima – attraverso la rigida divisione delle funzioni e la parcellizzazione delle mansioni – e Ford poi – con la standardizzazione della produzione attraverso il sistema della catena di montaggio – rivoluzionano il modo di produzione capitalistico. Il tempo viene ulteriormente frammentato, vengono scomposti i movimenti degli operai, filmati i micromovimenti come quelli oculari, per massimizzare la produttività. Ci si interroga se il lavoro della fabbrica possa influire sulla vita dei lavoratori, su quale ambiti questo produca degli effetti fisici, mentali e/o sociali. Dal punto di vista fisico, ad esempio, il lavoro della fabbrica, attraverso gli stessi movimenti ripetuti dall’operaio nell’interazione con la macchina, porta all’atrofizzazione di taluni muscoli. “Certi muscoli, organi e facoltà vengono sollecitati mentre altri restano inutilizzati, quasi che il corpo e il gesto stesso del lavoratore venissero rifondati. Alcune generazioni dell’Ottocento rimasero storpiate dal lavoro alle macchine e parecchie operaie rischiarono deformità fisiche anche per i figli” (Aris Accornero, cit., pag. 67).

L’ipotesi che il lavoro del sistema fabbrica sia in grado di influenzare gli abiti mentali viene indagato a inizio Novecento da M. Weber e T. Veblen, che giungono a diverse conclusioni riguardo al tipo di impatto sulla vita delle persone. L’ipotesi iniziale di Weber è che il lavoro della fabbrica eserciti sul lavoratore effetti di vasta portata influenzando lo stile di vita, il carattere ed il modo stesso di pensare. Per verificarla, egli conduce un’indagine sull’influenza psico-fisica del lavoro industriale. Le conclusioni a cui giunge sono la conferma che l’esercizio di un lavoro prolungato nel tempo può plasmare la condotta ed il modo di pensare e che tale influenza travalica il solo tempo del lavoro estendendosi all’intero tempo di vita. Il nuovo modello produttivo produce la razionalizzazione della vita, dice Weber, chiudendo l’individuo in una sorta di “gabbia d’acciaio”. Dal canto suo, Veblen si pone una domanda di carattere generale, interrogandosi sul modo in cui il lavoro di fabbrica possa incidere sul livello evolutivo degli operai. Ravvede nelle esigenze di esattezza e logica, che il nuovo modo di lavoro richiede, degli stimoli nello sviluppo del pensiero del lavoratore, che reputa positivi, quali maggior precisione e capacità di cogliere i rapporti di causa ed effetto. Il lavoratore assume nuovi abiti mentali che si estendono a tutta la vita che, secondo Veblen, rappresentano un miglioramento di quest’ultima.

Dopo la seconda guerra mondiale gli operai, a seguito delle lotte condotte dal sindacato per retribuzioni più alte ed orari di lavoro più corti – 8 ore di lavoro, 8 ore di riposo, 8 ore di vita – hanno a disposizione maggior tempo libero e denaro da spendere, così da diventare, agli occhi degli imprenditori, anche dei consumatori; quindi un nuovo mercato da soddisfare. Si assiste, perciò, ad un’ulteriore articolazione del tempo: quella del tempo libero, che diviene una nuova forma di merce. Il tempo libero del lavoratore viene sfruttato dal capitalista, che produce e vende al lavoratore beni di consumo molto particolari, che hanno una duplice valenza: oltre a produrre un profitto, orientano il pensiero del lavoratore, in modo tale da creare consenso verso il sistema e prevenire possibili rivendicazioni sociali. 

Con lo spostamento dalle campagne alle zone suburbane di masse di lavoratori e con la nascita della cultura di massa, strettamente correlata alle attività che producono i beni di consumo per il tempo libero dei lavoratori, l’industrializzazione ha dato vita alla società di massa. Cinema, giornali, televisione e radio divengono il veicolo attraverso cui l’industria culturale, termine e paradigma socio-culturale coniato dai francofortesi Adorno e Horkheimer, impiega il tempo libero dei lavoratori e al contempo ne indirizza gusti e consenso. Dagli anni settanta si assiste alla crisi delle politiche keynesiane, all’indebolimento del ruolo dello Stato e contestualmente allo sviluppo del capitalismo finanziario. Nello stesso tempo in cui si indebolisce il pubblico e si depotenziano le grandi organizzazioni sindacali, rappresentanti di categorie di lavoro omogenee che avevano garantito e combattuto per condizioni di lavoro adeguate, compare sulla scena sociale un nuovo mondo del lavoro, caratterizzato da disoccupazione, lavori precari e diversificati, in condizioni di ricattabilità tali da spingere verso una sempre maggiore individualizzazione e concorrenza tra “pari ”per  mantenere il posto di lavoro. “Una gestione fluida ed individualizzata del mondo del lavoro deve sostituire una sua gestione collettiva, basata su situazioni stabili di impiego. Con un po’ di distacco, si comincia a rendersi conto che con il mutamento del capitalismo, che ha iniziato a produrre i suoi effetti all’inizio degli anni Settanta, entra fondamentalmente in gioco una messa in mobilità generalizzata dei rapporti di lavoro… e delle protezioni inerenti allo statuto dell’impiego. Dinamica profonda che è, al tempo stesso, di decollettivizzazione, di reindividualizzazione e di aumento dell’insicurezza.” (R. Castel, L’insicurezza sociale, pag. 36, 2004).

Oggi si assiste ad un ulteriore rimodellamento del tempo a fronte di attività svincolate dai classici tempi e lavori industriali. Lo sviluppo del settore dei servizi e la nuova riorganizzazione dell’industria, ispirata al toyotismo, diviene just in time e si pone un nuovo imperativo della produzione: soddisfare la domanda del cliente in tempo reale. Orari flessibili e diversificati, articolati spesso ad personam, non ci restituiscono maggiore libertà ma al contrario ce ne privano sempre di più, attraverso la disarticolazione del tempo chronos frammentato e polverizzato in una vita atomizzata, che scioglie quella struttura sociale che in precedenza era stata la base per la costruzione di lotte politiche e fonte di solidarietà. Oggi la classe sociale subalterna racchiude in sé differenti lavori, il denominatore comune non è più l’attività svolta, bensì la condizione di vita che ne deriva: massimo sfruttamento, pressione performativa e minime garanzie economiche e sociali. Ne è un esempio la condizione dei lavoratori del colosso Amazon dove, in linea con i tempi odierni che consumano tutto velocemente, si assiste ad un ricambio del personale mediamente ogni 4-6 mesi, causa esaurimento psicofisico.

Questa condizione, disomogenea per attività, contratti, orari e privata di una rappresentatività sindacale uniforme, è condizione di classe, anche se risulta completamente offuscata e mascherata nella indefinitezza strutturale neoliberista. Il neoliberismo ha prodotto una classe sociale cui ha tolto la forza dell’identità politica e sociale su cui basare lotte e rivendicazioni. L’insicurezza sociale che ne deriva scaraventa l’individuo sempre di più, attraverso la disarticolazione del tempo chronos, in una vita caratterizzata da un tempo libero dal lavoro, sempre meno qualitativo, sempre meno kairos, una vita connotata sempre di più da una solitudine che è politica e sociale. Le caratteristiche salienti di questa nuova classe sociale sono un orizzonte di sfiducia verso il futuro ed un presente caratterizzato da incertezza. Solitudine e incertezza spingono sempre più verso un consumo del tempo libero che esprime bisogni di contenimento di ansie e riempimento di vuoti interiori. Una vana, ma comprensibile ricerca di “felicità” che non può trovare risposta se non viene sostenuta da un connettivo sociale di coesione, giustizia e solidarietà, che può essere espresso solo all’interno di una società liberata dal dominio di pochi che producono accumulazione di capitale e benefici a proprio vantaggio. Contemporaneamente sono stati prodotti i nuovi schiavi dell’era moderna, relegati all’individualismo più feroce, quello che impedisce anche di pensare la liberazione, di sognare un altro mondo. Questi nuovi schiavi non hanno più nemmeno bisogno di catene. L’orizzonte possibile è solo quello proposto e ci si ritiene addirittura fortunati ad avere lavori mal pagati, senza garanzie sociali, senza nemmeno poter aspirare ad un tempo kairos, perché spesso il tempo va investito tutto nella ricerca ciclica di un lavoro o nello svolgimento di più lavori.

Le “risposte”, a questo stato di cose, che proliferano nel variegato mercato neoliberista, rappresentano spesso una sorta di “depistaggio” messo in essere per evitare qualsiasi tentativo di costruzione di una possibile risposta sociale e politica, per ribaltare la condizione di assoggettamento e depotenziare la stessa volontà di credere che si possa cambiare lo status di vita attuale. Oltre il mondo capitalistico non si riesce ad immaginare un altro mondo possibile. Oggi, come mai prima, abbiamo coach per ogni aspetto dell’esistenza: cucinare, mangiare, pensare, lavorare, credere, in sostanza vivere necessita di essere guidati, affidati alle abili e sapienti braccia di qualcuno a cui delegare il fardello di una esistenza smembrata, privata di ogni possibilità di riscatto. Corsi, stage e seminari straripano di counselors per riuscire nel lavoro, incentivare la volontà, mangiare, camminare, passeggiare, respirare in modo diverso, in sostanza cambiare ed assumere uno stile di vita resiliente, che ti illuda di essere impermeabile alle difficoltà, e poter così raggiungere il successo e la felicità. Quel tempo kairos a cui aspiriamo, di cui sentiamo il bisogno, a cui abbiamo diritto, è un tempo da costruire, da rivendicare come società, non come singoli, cambiando la struttura economica capitalistica che schiaccia, sfrutta e deruba anche i sogni.

Ma noi umani non siamo gli unici attori sulla scena del pianeta Terra. Insieme a noi ci sono gli altri animali. La questione animale entra a pieno titolo nella costruzione di una società solidale ed equa. Di conseguenza occorre porsi l’interrogativo se anche per gli animali vi sia un tempo chronos e kairos e se e come il capitalismo possa aver cambiato il tempo anche per loro. Le categorie usate nell’analisi riguardo gli umani possono essere utilizzate anche nei confronti degli altri animali partendo dai due presupposti seguenti: il primo è che loro siano riconosciuti come esseri senzienti, in grado cioè di sentire e con una forma di consapevolezza di sé e del mondo. Il secondo è che siano considerati animali sociali, in grado di sviluppare una dimensione sociale attraverso relazioni con i membri della propria specie. A questo proposito, l’osservazione, la convivenza e le ricerche hanno ampiamente dimostrato che gli animali sviluppano relazioni e costruiscono una dimensione sociale non solo intraspecie ma anche inter-specie, ed hanno influenzato la normativa tematica. Oggi i due presupposti indicati sono soddisfatti non solo a livello giuridico ma anche scientifico, attraverso gli studi nei diversi campi di ricerca quali etica, sociobiologia, etologia, biologia, neurologia, filosofia, etc.

La considerazione che le varie società umane, nell’arco della storia, hanno avuto ed hanno nei confronti degli animali non umani è espressione di un’oggettivizzazione che li rende atti ai più diversi usi: consumo come cibo e vestiario, impiego come strumenti e/o mezzi di trasporto e molto altro ancora. Anche precedentemente all’avvento del modo di produzione capitalistico, gli animali coinvolti nelle attività umane hanno vissuto più che altro il tempo limitato alla sola dimensione del tempo chronos; mentre per i selvatici si può ipotizzare maggiore accesso a un tempo kairos. La rivoluzione industriale ha portato, con lo sviluppo della tecnologia, vantaggi per quegli animali che erano sottoposti a talune specifiche forme di sfruttamento, ma non li ha comunque liberati dallo sfruttamento e dominio capitalistico. Difatti con l’avanzamento, la pervasività ed espansione della società capitalistica che tende automaticamente all’accumulazione di capitale e alla realizzazione del massimo profitto al minor costo possibile, un numero sempre maggiore di animali non umani sono stati utilizzati come materie prime soprattutto in campo alimentare; per esempio negli allevamenti intensivi. Per tutti questi animali, un numero infinito, non c’è stato né mai ci sarà un tempo kairos, ed il tempo chronos stesso a loro disposizione non è solo a termine, ma è orrore e dolore. Una moltitudine di vite fatte nascere solo per essere consumate. Solo un numero infinitesimale sfugge al proprio destino e trova rifugio nei santuari, che grazie all’opera meritoria di chi li gestisce rappresentano degli avamposti che possono far intravedere una relazione con gli animali che sfugga alla logica capitalistica di mercificazione dei viventi.

Al capitalismo non sfuggono neanche gli altri animali, come i selvatici, che di fronte ad un utilizzo sempre maggiore di risorse e suolo si trovano un habitat ridotto ed alterato, come i tempi e i modi di relazione con esso. La riduzione della quantità di spazio a disposizione, ad esempio, influenza le dinamiche nei gruppi sociali e tra i gruppi sociali di tutti gli animali, umani e non umani, cambiando inevitabilmente il tempo di vita che diviene meno kairos e più chronos. Durante la pandemia da covid19 abbiamo avuto un esempio illuminante di tempo chronos e kairos attraverso l’esperienza del “distanziamento sociale”; molti di noi avranno sicuramente sperimentato una maggiore distensione e minore pressione, una sorta di cambio del tempo vissuto. Quello del distanziamento è un comportamento che viene usualmente utilizzato, per motivi di ordine igienico e sociale, da moltissime specie animali e richiede verosimilmente la possibilità di disporre di spazio fisico sufficiente. 

Possiamo, quindi, immaginare l’effetto della pressione antropica sugli animali a fronte del consumo e  dell’alterazione delle zone boschive, montane, marine e del consumo spropositato delle risorse disponibili. In questo nuovo scenario, ad esempio, gli animali non umani si trovano ad essere impegnati in incontri che prima potevano evitare, o ad impiegare più tempo nella ricerca di risorse. Se pensiamo ai fatti accaduti di  recente, dell’orsa Gaia ed i suoi cuccioli, avvenuti nei boschi del Trentino, possiamo presumere che la vicina presenza umana durante il periodo di svezzamento dei cuccioli non abbia prodotto un effetto distensivo sul comportamento della madre, e che il tempo vissuto da lei e dai suoi cuccioli non sia stato un tempo kairos.

Gli animali non umani, come noi, possono e dovrebbero avere un tempo di vita kairos. Garantirgli questo diritto spetta alla società umana, e per poterlo fare va cambiata la struttura economica presente. Superare il capitalismo è condizione sine qua non, perché si possano riscattare tutte le vite dal loro abbrutimento e dalla loro riduzione a una dimensione puramente quantitativa di esistenza, e costruire una società che può e deve essere giusta, solidale e compassionevole verso tutti i viventi.

di Annamaria Ottaviani, Gruppo di Antispecismo Politico

Gruppo di Antispecismo Politico
Gruppo di Antispecismo Politico è un collettivo ecosocialista antispecista con un approccio multidisciplinare, attivo nello studio e nella ricerca sui temi della giustizia animale e sociale. Ci proponiamo, fra le altre cose, di indagare e denunciare l’influenza del neoliberalismo sul mondo della lotta per i diritti e la liberazione animale e su quello dei movimenti sociali in generale.

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