La politica è pronta per il dopo Draghi?
Fonte immagine: Aron Urb/Wikimedia Commons

Manca meno di un anno al voto, che si celebrerà a conclusione di una legislatura travagliata che ha visto l’avvicendarsi di ben tre esecutivi e una serie di congiunture eccezionali come la pandemia e la guerra in Ucraina. L’insediamento di Mario Draghi a Palazzo Chigi aveva apparentemente interrotto ogni tentativo di discussione sul futuro, dato che i partiti, usciti distrutti e umiliati da quella crisi di governo in piena pandemia che ha messo fine al secondo esecutivo di Giuseppe Conte, si sono affrettati a salutare il “salvatore” della patria (legislatura). In realtà negli ultimi mesi, non è passato giorno senza che un grande quotidiano si ponesse un quesito che, in fin dei conti, riguarda il futuro di un intero Paese e della sua politica: l’Italia è pronta per il dopo-Draghi?

Accanto agli articoli di giornale, che si caratterizzano soprattutto per lunghe e complesse analisi condite da ben nascoste speranze, ci sono anche le interviste di alcuni leader di partito che auspicano la permanenza dell’ex BCE a Palazzo Chigi anche oltre il 2023. Per fare un esempio, Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva ha affermato di recente che “Draghi può fare tutto” e che, in vista del voto, si parlerà del prosieguo del suo percorso a Palazzo Chigi. Alle parole dell’ex segretario del PD ha fatto eco l’attuale segretario Enrico Letta, anch’esso sponsor di un prosieguo in politica per il premier, nella consapevolezza che dovrà fare i conti con le varie correnti che stanno lavorando per il dopo-Draghi con idee e obiettivi diversi se non inconciliabili. Infine, i draghisti più o meno insospettabili, un partito trasversale di cui non si conoscono ancora i contorni.

Quando l’attuale capo del governo si insediò a Palazzo Chigi, infatti, i giornali salutarono la sua ascesa con grande giubilo, associando il suo intervento a una mossa salvifica del Presidente Sergio Mattarella, il quale, secondo la vulgata, pose rimedio agli indicibili errori dell’esecutivo di Giuseppe Conte. Furono in pochi quelli che riuscirono a scorgere l’ennesima operazione di de-responsabilizzazione politica, che ha portato a Palazzo Chigi l’ennesimo tecnico, chiamato ad operare in un momento difficile per la nazione.

Si tratta di una storia che l’Italia, purtroppo, conosce bene. Dai governi tecnici come quelli di Monti e Dini agli esecutivi tecnico-politici di Ciampi e Draghi. Quando bisogna affrontare una grave congiuntura che richiede riforme impopolari, la politica italiana preferisce affidarsi ai tecnici. Nello specifico, dalla revisione del fisco alle concessioni balneari, riforme necessarie per sbloccare le numerose tranches dei fondi europei del PNRR, c’è molto lavoro da fare e molte responsabilità da assumere. Ricorrere a un tecnico facilita il compito perché funge da paravento, preservando il consenso e congelando la situazione fino alle prossime elezioni.

Ma in questo caso, si sta osando di più: a circa un anno dal voto, i partiti politici e i giornali già discutono circa l’eventualità di “un Draghi per il dopo-Draghi“, a causa del perdurare delle condizioni di crisi socio-economica interna e internazionale. Si stanno ponendo non solo le basi dell’ennesima operazione di de-responsabilizzazione, ma anche di un vero e proprio “commissariamento” della politica. Del resto, come può una classe dirigente che rifiuta le responsabilità politiche, si affida ai deus ex machina tecnici anziché ai leader che esprime, sempre più deboli e meno autorevoli, candidarsi a rappresentare le volontà degli elettori?

I partiti e il dopo-Draghi

Seppur, come sottolineato, l’Italia abbia una lunga tradizione nell’adoperare i tecnici per risolvere le beghe che la politica non vuole o non può risolvere, il fatto che alcuni esponenti vogliano continuare nella stessa direzione anche dopo il voto è inedito. In molti ricordano l’esperienza elettorale di Mario Monti, che con Scelta Civica decise di proseguire autonomamente anche dopo il 2013, ottenendo soltanto un 5% che decretò il fallimento della sua esperienza “politica”. Le condizioni, questa volta, sono diverse.

Fino ad ora, il tecnico ha respinto le avance dei vari leader centristi, i quali senza troppi complimenti lo candidano a baluardo di un’area politica, quella del centro, scomparsa ormai da quasi trent’anni, cioè dalla fine della Democrazia Cristiana negli anni ’90. La schiera di coloro che vorrebbero proseguire questa esperienza va da Berlusconi a Matteo Renzi, passando per Carlo Calenda. Con le elezioni amministrative l’entusiasmo sembra essersi affievolito, restando palpabile soltanto in coloro che non hanno molte pretese elettorali – i partiti più piccoli e che pensano ad ottenere un buon risultato o ad accasarsi con altri nel 2023 – mentre altre formazioni politiche parrebbero aver accentuato volontariamente i propri malumori interni alla maggioranza (anche a causa della guerra in Ucraina) attaccando lo stesso governo di cui fanno parte, nella speranza di smuovere qualche voto in più. Ma i tifosi del premier ex-BCE rimangono numerosi.

In molti credevano che il dopo-Draghi sarebbe arrivato già dopo le elezioni del nuovo Presidente della Repubblica, in cui si credeva che l’ex BCE avrebbe fatto il salto di qualità verso il Quirinale. La rielezione di Mattarella, potrebbe, però, rinforzare l’idea di volerlo per un bis a Palazzo Chigi. Il grande centro dei draghiani ha bisogno di un nome spendibile e il fatto di avere leadership deboli e poco appetibili sul mercato elettorale (complice una popolarità bassissima) non depone a favore di un progetto ambizioso. Ecco perché il nome di Mario Draghi assume la consistenza di un nome forte e al contempo di un punto programmatico. D’altronde la sua ascesa a Palazzo Chigi è stata confezionata dagli stessi partiti che ora lo candidano a perno del centrismo (Italia Viva e Azione su tutti).

Ed è proprio nelle fragili leadership dei partiti italiani che è possibile rintracciare uno dei motivi legati all’infatuazione dell’attuale classe dirigente per il tecnico ex BCE per il dopo-Draghi. I partiti si stanno sfilacciando, tra correnti e defezioni, e quindi la necessità di un nome che possa mettere d’accordo tutti e sopperire alle manchevolezze programmatiche è quanto mai necessario per dare quella parvenza di forza e unità assolutamente necessaria a un anno dal voto. Il sostegno all’economista, infatti, è stato bipartisan a sinistra e a destra. Inizialmente gli unici scettici erano proprio i grillini, i quali su spinta di Luigi Di Maio e di Beppe Grillo hanno successivamente aderito al governo. Gli esperti di flussi elettorali, inoltre, ritengono che le ultime sollevazioni interne alla maggioranza da parte del M5S (e della Lega) potrebbero penalizzarli in ottica elettorale proprio per l’assenza di coerenza nel sostenere un governo di cui sono critici e, in seconda istanza, per l’alto gradimento di cui Draghi gode, che premia i partiti percepiti come più leali (PD e FI).

In ottica di leadership, i due ex alleati del fu governo giallo-verde hanno rilevanti problemi di coesione interna. Nel Movimento, Giuseppe Conte ha il controllo di una parte sola del partito, condividendo il potere con l’ala fedele a Di Maio (ancora maggioritaria, soprattutto a livello parlamentare) e con altre fazioni più piccole. La Lega di Salvini sta vivendo problemi dovuti ai continui errori politici commessi dal segretario prima sul virus e adesso sulla guerra. Entrambi, quindi, condividono la scarsa coesione e una leadership molto debole e restia a seguire il capo. Le divisioni dei due partiti si riversano, assieme a quelle delle altre formazioni, sulla maggioranza che battaglia continuamente sugli argomenti più disparati, dalle concessioni balneari ai termo-valorizzatori. Come è naturale, gli scontri politici interni alla maggioranza si sono prima surriscaldati e poi congelati a ridosso del voto amministrativo, ma prevedibilmente diventeranno più aspri proprio per i pessimi risultati conseguiti dai partiti meno fedeli al governo, Lega e M5S, che hanno quindi più interesse a marcare le proprie differenze. Di conseguenza, anche le discussioni sul dopo-Draghi riprenderanno con ritrovata intensità.

Un tecnico a Palazzo Chigi?

In un quadro incerto e squilibrato, dove i partiti battagliano per spostamenti irrisori del consenso, una figura autorevole e in grado di mettere d’accordo la maggior parte delle correnti interne alle sfilacciate formazioni partitiche, è una manna dal cielo. Almeno apparentemente. Mario Draghi non è un politico di professione, inoltre il suo nome non è stato proposto in quanto leader di una grande coalizione di centro bensì come un vero e proprio punto programmatico da esibire sul pulpito elettorale per colmare il vuoto della politica. Non è assolutamente scontato che partiti quali Lega e Movimento Cinque Stelle si schierino a favore di un prolungamento dell’esperienza di Draghi sotto elezioni e, nel secondo caso, soprattutto se Giuseppe Conte avesse la possibilità di redigere le liste dei parlamentari da candidare in autonomia e senza influenza alcuna degli ex di Di Maio.

In aggiunta come giustificherebbero nei confronti del proprio elettorato il sostegno a un candidato comune, quale Mario Draghi, il Partito Democratico e Forza Italia? Nello specifico, il primo dovrebbe anche rompere il campo largo che sta costruendo con i grillini, mentre il secondo si dovrebbe staccare dalla coalizione con Lega e Fratelli D’Italia di cui è forza mediatrice e punto di equilibrio. Anche a livello programmatico, considerate le divisioni della maggioranza sugli argomenti più disparati, come potrebbero trovare un accordo formazioni politiche così diverse?

Ma i dubbi circa la validità di questa opzione non sono soltanto relativi alle divergenze programmatiche e di opportunità, ci sono problemi anche di natura squisitamente politica. La classe dirigente del Paese preferisce erigere a istrione un tecnico estraneo alle dinamiche politiche anziché assumersi le proprie responsabilità in un momento in cui soltanto la politica, quella vera, deve campiere scelte difficili. Un tecnico a Palazzo Chigi non può essere altro che un’operazione temporanea, in cui le responsabilità politiche che i parlamentari dovrebbero assumersi vengono accantonate per scelte partigiane o per il timore di non essere in grado di reggere il confronto con il Paese e con la situazione internazionale che va delineandosi. Di conseguenza, la vera domanda da porsi sarebbe: “La politica italiana è pronta per il dopo-Draghi?” La risposta è sicuramente no.

Donatello D’Andrea

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