«Chi inquina paga» è il nuovo, altisonante e vago leitmotiv di buona parte della classe politica mondiale, che sia essa liberista, sovranista o socialdemocratica, e suffraga gli irenici obiettivi di greenwashing. Il «chi inquina paga» rientra in una logica riformista che genera misure climatiche digeribili per l’elettorato più reazionario e soprattutto per le corporations, le holding e il sistema bancario. Da ciò, per l’appunto, scaturiscono manovre politico-fiscali come la carbon tax, la plastic tax e il cap and trade (scambio di quote di emissioni, crediti di carbonio, foreste a compensazione di CO2) in modo che ogni Stato abbia maggiori entrate nell’erario e che – teoricamente – restituisca come «dividendo» una piccolissima fetta di tali introiti a tutti i cittadini. Ma in concreto il punto focale è che non s’intacchi il paradigma del libero mercato poiché secondo l’ideologia dominante attraverso esso avverrà la salvezza del pianeta. È evidente che chi detiene i debiti degli Stati o fa grossi investimenti nei suoi territori, influenza – molto pesantemente – le politiche economiche e sociali di quest’ultimi.
Dunque si è rilanciata la mercatizzazione della lotta al riscaldamento globale. Le classi politiche globali fanno propri i dettami della cosiddetta green economy, secondo cui il limite ambientale non deve essere percepito come vincolo allo sviluppo, bensì come inedita opportunità di business, motore di crescita, fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica. Con tasse come la carbon tax e la plastic tax s’impongono riduzioni delle emissioni di CO2 e dell’utilizzo di plastica monouso più che altro ai cittadini, senza scalfire gli interessi delle corporations che controllano la produzione di energia, l’agricoltura e l’industria e che inoltre sottraggono suolo alle fonti di assorbimento di gas serra a vantaggio della creazione di profitto e di nuovi mezzi di produzione. «Chi inquina paga» è una sciocchezza!
Il 71% del totale delle emissioni di gas serra dal 1988 a oggi è riconducibile ad appena cento corporations, le cosiddette «major del carbonio». Le sole riserve di petrolio rappresentano più di 50 mila miliardi di dollari e le sovvenzioni statali e private dirette ai combustibili fossili valgono globalmente 775 miliardi di dollari circa all’anno. Inoltre la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni di tonnellate nel 1964 agli oltre 310 milioni attuali, e di questo passo nel 2050 avremo, in peso, negli oceani del mondo più plastica che pesci. Al momento nessuna carbon tax o plastic tax può limitare tutto ciò. Lo sfruttamento delle risorse terrestri, siano esse umane o naturali, e la conseguente sovrapproduzione di merci, sono connaturati al modo di produzione capitalistico. L’ambiente, i diritti dei lavoratori, i diritti sociali, la stessa umanità, per le multinazionali rappresentano un costo e più sono bassi i costi più sono alti i profitti. Le multinazionali punteranno costantemente al massimo risparmio e aggireranno le regolamentazioni ovunque sia necessario per ridurre i costi, battere i concorrenti, conquistare nuovi mercati e massimizzare i profitti. La crescita è l’espressione razionale delle esigenze della riproduzione capitalista. «Crescere o morire» è la legge della sopravvivenza nella giungla del mercato competitivo del capitalismo in perpetua espansione.
Capitalismo e «mito della crescita»
È l’attuale sistema economico, il capitalismo, che sta uccidendo il nostro pianeta. La sua ricerca insaziabile del massimo guadagno a breve termine è la causa della corsa verso l’abisso, in cui gli standard ambientali e il tenore di vita delle masse sono continuamente erosi. È il grande capitale che decide cosa viene prodotto, come viene prodotto e cosa dev’essere consumato. L’economia globale è lasciata alla cosiddetta «mano invisibile», cioè all’anarchia del mercato che tende alla crescita illimitata. Riforme fiscali come la carbon tax e la plastic tax sono del tutto insufficienti. I politici foraggiati dai capitalisti non hanno nulla da offrire in risposta alla devastazione in atto. Possono al massimo incentivare scelte etico-individuali ecofriendly per colpevolizzare o illudere i singoli.
C’è un conflitto insanabile tra il clima e le ragioni del capitale e non sarà di certo qualche slogan come «chi inquina paga» a risolvere tale contraddizione. La crisi climatica è creata in netta prevalenza dagli strati più ricchi della società: quasi il 50% delle emissioni globali è prodotto in prevalenza dal 10% più ricco della popolazione mondiale, tant’è che l’impatto ambientale dell’1% più ricco del Pianeta può arrivare a essere 175 volte maggiore di quello del 10% più povero. Infatti le vittime del riscaldamento globale e dell’annesso inquinamento sono rappresentate da sottogruppi di popolazione svantaggiati, ovvero bambini, malati e anziani. L’inquinamento acustico, le temperature estreme, impattano in modo sproporzionato sulle fasce più deboli della popolazione, da un punto di vista socio-economico, da un punto di vista di età anagrafica e da un punto di vista immunitario. L’impatto delle emissioni climalteranti antropogeniche (anidride carbonica e metano), dei macroinquinanti (polveri sottili, biossido di azoto, ozono) e dei microinquinanti (diossine, IPA, PCB, benzene), che sono fra loro strettamente intrecciati, si fa sentire in modo più grave dove i redditi e l’istruzione sono più bassi, dove i tassi di disoccupazione sono superiori alle medie, e dove i sistemi immunitari sono deficitari. Inoltre si calcola che dal 2000 al 2018 i disastri naturali hanno determinato lo sfollamento di 265 milioni di persone.
Questo è un processo drammatico che tenderà nei prossimi decenni a una catastrofe ecologica senza precedenti nella storia umana: aumento della temperatura, desertificazione, scomparsa di acqua potabile e della maggior parte delle specie viventi, moltiplicazione di uragani, innalzamento del livello del mare e feroci conflitti etnici. Il capitalismo è il principale nemico dell’ecosistema e della biodiversità. È necessaria una lotta a tutto campo ai rapporti di proprietà e di produzione, all’inquinamento, alla povertà, al razzismo e al colonialismo.
Chi inquina paga: eco-suicidio o ecosostenibilità?
Il sistema di produzione capitalistico opera sulla base di combustibili fossili cause primarie del riscaldamento globale: carbone e petrolio. Un sistema che vive sulla base dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo, non può che comportare anche lo sfruttamento indiscriminato dell’uomo sulla natura. Riforme basate sulla bio-economia circolare (carbon tax, plastic tax), che prevedono la dismissione graduale dell’utilizzo di fonti fossili e un aumento dell’utilizzo di fonti naturali per numerose produzioni, in particolare energetica e industriale, sono rischiose poiché non verrebbero destituiti i princìpi di sovrapproduzione e di sovraconsumo. Appena l’utilizzo di fonti fossili verrebbe disincentivato, le stesse lobby petrolifere investirebbero sul ramo più profittevole, il che comporterebbe l’uso dello stesso metodo – quello capitalistico – su fonti diverse: sfruttamento dei terreni, delle risorse naturali (e chiaramente del lavoro) su scala sempre più ampia. Infatti i principali investitori nella bio-economia sono le stesse aziende che si occupano di estrazione, raffinazione e vendita di oro nero.
È evidente che il problema principale non risiede solo nella fonte di approvvigionamento, quanto nel modo di produzione e che ridurre le emissioni è del tutto inutile se all’orizzonte si prospetta uno sfruttamento più massiccio della Terra. Tuttavia la crisi ecologica, di per sé, non porta a un crollo del capitalismo. Il capitalismo può sopravvivere con la peggiore energia e nelle peggiori condizioni agricole. Non v’è alcun meccanismo automatico che porti a un crollo del capitalismo. Ci saranno crisi terribili, ma il sistema troverà una via d’uscita sotto forma di guerre, dittature e movimenti fascisti.
La moderna civiltà capitalista industriale-finanziaria si dirige spedita verso l’eco-suicidio. Porre fine al capitalismo è possibile solo con un processo rivoluzionario, un’azione collettiva storica in chiave anti-capitalista. Il capitalismo scomparirà solo quando le sue vittime insorgeranno contro di lui, e allora sarà rimosso. Il processo di trasformazione verso una società ecosostenibile non richiede blande gradualità e né compromessi, come la carbon tax e la plastic tax, strutturati sulla debole logica del «chi inquina paga».
Infatti i climatologi K. Anderson e A. Bows nel 2012 sulla rivista Nature Climate Change scrissero: «la nostra dissipatezza carbonica collettiva e perdurante ha sprecato qualsiasi possibilità di ‘‘cambiamento evolutivo’’ concesso dal nostro bilancio carbonico precedente (e più ampio) legato ai 2°C. Oggi dopo due decenni di bluff e bugie, il bilancio restante esige cambiamenti rivoluzionari dell’egemonia politica ed economica».
Il riscaldamento globale in atto è il massimo esempio di fallimento del mercato che si sia mai visto. Il superamento del modo di produzione capitalistico è la condizione necessaria (anche se non sufficiente) per poter ovviare alla crisi ecologica. Non basterà qualche tassa come la carbon tax e la plastic tax. È necessario pianificare uno sviluppo delle forze produttive e d’un consumo ecologicamente sostenibili, e che ciò realizzi l’equilibrio tra uomo e natura, garantendo la salvaguardia e la riproduzione dello stesso genere umano. «Chi inquina paga» è una sciocchezza: dobbiamo ribadire con forza che non s’inquina e basta.
Ecosocialismo o barbarie!
Gianmario Sabini