Boris

Nel 2007 su Fox andava in onda una serie televisiva che non somigliava a nessun’altra nel panorama italiano ma che, con gli anni, sarebbe diventata un vero e proprio fenomeno cult tramite il passaparola, rivelandosi per molti come uno dei rari esempi di cui andare fieri per la tv made in Italy: Boris, sceneggiata da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, andrà avanti per tre stagioni da 42 episodi in totale, più un film, in un arco di tempo che va dal 2007 al 2011. La tragicomica vicenda di una troupe sgangherata capitanata dal regista René Ferretti (Pannofino), il suo tergiversare in un’odissea di fiction e cinema di scarsa qualità alla ricerca di un progetto un minimo artistico e non umiliante, tra produttori squali e manovalanza scazzatissima, era il propellente narrativo per una storia che riusciva a fare satira su un intero settore, quello dell’industria cinematografica e delle fiction televisive all’italiana, che dopo anni di robe improponibili come “Gli occhi del cuore” (sequel annessi) non sembrava smettere di produrre monnezza su monnezza, in ambienti lavorativi squallidi dalle dinamiche di potere terrificanti. Questo, almeno, era il panorama più di dieci anni fa raccontato da Boris, che con il tempo è diventato così cult da introdurre modi di dire, frasi o battute nel quotidiano. Oggi è cambiato qualcosa? Sulla tv generalista probabilmente no. E se qualcuno ha dubbi in proposito provi a vedere Sopravvissuti, andata in onda su Rai Uno nelle ultime settimane, spacciato come il nostro “Lost all’italiana” – che è un’idea che sembra uscita davvero da Boris.

Dopo 11 anni dal film (e 12 dalla terza stagione), però, il mondo seriale è cambiato davvero in modo radicale per noi spettatori: Netflix in primis e la concorrenza sbarcata in Italia (Prime Video, Disney+, Apple Tv, Paramount+) hanno introdotto un nuovo modo di vedere le serie tv, con abboffate di binge-watching e abbonamenti mensili. Ma certe cose non sono mai cambiate e non cambiano mai nell’industria, anche quando sono spacciate come una novità mai vista prima: Boris è tornato per ricordarcelo con una quarta stagione che sembrava non essere necessaria e invece a modo suo lo è, riuscendo ad essere più divertente della terza – se proprio va detto, anche se le prime due sono irraggiungibili – e che funziona a meraviglia quando i personaggi cult di cui abbiamo imparato frasi a memoria interagiscono, tornano sul set, fanno detonare ogni pretesa di qualità (già di per sé labile) e provano a portare a casa la pagnotta buttando tutto in caciara. La tv generalista di un tempo ormai è superata: ora lo scenario a cui guardare è quello della Piattaforma internazionale, con il terribile algoritmo a decidere vita, morte e miracoli di sceneggiature e gusti del pubblico. Imbarcati in un ennesimo progetto fallimentare, la troupe di René prova stavolta a farsi dare l’ok a un progetto sulla vita di Gesù – per nulla originale sulla carta, come sempre – da mandare in streaming. I problemi restano quelli di sempre: il protagonismo maniacale di Stanis La Rochelle, la recitazione terrificante di Corinna, le intrusioni all’interno della produzione di politica o malavita organizzata, scioperi, mazzette, interferenze dai piani alti, la follia di Mariano Giusti, droga che gira sul set. Ma c’è del nuovo: anche se è un nuovo che nasconde il vecchio, come da programma.

È nelle novità che Boris 4 torna sul luogo del delitto per mostrarci come la sua filosofia alla Tancredi del Gattopardo, quella che volgarmente dice che tutto deve cambiare affinché nulla cambi, resti la metafora perfetta per spiegare non solo un’industria lavorativa ma la filosofia di un’intera nazione a cui piace sempre la “merda” che René Ferretti, in momenti di puro delirio ed esaurimento mentale, esaltava nelle stagioni passate. Temi quali l’inclusività, le comunicazioni social, l’obbligatoria storia teen, l’authenticity, il rispetto maniacale sul set di norme di buona condotta, sono urgenze recenti e vengono declinate dagli sceneggiatori e registi Vendruscolo e Ciarrapico (manca il prematuramente scomparso Mattia Torre) non in chiave reazionaria, ma per quello che diventano quando a gestirle è una multinazionale interessata agli sbandamenti del mercato: dunque una forzatura di facciata da rispettare a tutti i costi, una dinamica gattopardiana su scala globale, e che non impatta davvero sul lavoro o su una inclusività vera nel quotidiano, ma è indirizzata solo a un target specifico: quello che guarderà la serie da dietro uno schermo, ignorando il vero dietro le quinte con i rapporti di potere che vi si nascondono e che torneranno a mostrarsi in tutta la loro violenza a telecamere – e pc – spento. Vedere il brutale Biascica che cerca di barcamenarsi con la schwa e la gentilezza verso i colleghi è micidiale. Ma lo è anche scoprire come la storia teen verrà innestata in una vita di Gesù da parte degli Sceneggiatori (che sono sempre tre, anche se uno li aiuta dall’aldilà) pur di non farsi cassare il progetto.


Boris 4 risulta quindi genuinamente divertente, ha dalla sua dei mattatori assoluti come Pietro Sermonti e Antonio Catania, delle guest star che monopolizzano la visione come Corrado Guzzanti e Giorgio Tirabassi, crea nuove battute pronte a diventare cult e meme, raccontando per l’ennesima volta lo sfascio della qualità in nome del profitto e del peggior conservatorismo. E ci sono tutti, ma proprio tutti: Arianna, Duccio, Alessandro, Sergio, Alfredo, Karin, Cristina, Martellone. Dopo 11 anni non è strano che Boris, tornato su Disney+ e pronto dunque a farne della satira, ci faccia ancora ridere: è tragico che ci riesca perché siamo rimasti lì, come i personaggi della troupe di René.

Difetti ce ne sono: il più grave è che i nuovi personaggi quasi mai riescono a ritagliarsi uno spazio decisivo o di interesse (avrebbe meritato molto di più il personaggio di Lalla/Aurora Calabresi), diventando quasi sempre delle figure di contorno incomprensibili o senza una vera direzione narrativa; inoltre, sul finale – ampiamente prevedibile – c’è come una perdita di mordente e di ritmo, più una sequenza di parodia a un film famoso che risulta del tutto fuori luogo. Eppure, nonostante ciò, Boris resta sempre Boris. In effetti la fuoriserie italiana era riuscita a ritagliarsi un posto speciale perché non somigliava a nessun altro prodotto. Questo comporta oggi la difficoltà da parte degli sceneggiatori nel doversi confrontare con sé stessi e il piccolo mito che hanno creato: come fare a reggere il paragone nel 2022 con dialoghi e battute iconiche, con i “dai, dai, dai!“, i toscani che hanno devastato questo paese, gli atteggiamenti troppo italiani, la ca(g)na maledetta, la cocaina sul set, gli stagisti schiavi, il basito in sede di sceneggiatura, i ruoli (che oramai li fa tutti Favino), la sigla (rivisitata per l’occasione da Elio e le storie tese) e gli spezzoni delle vecchie stagioni? Vendruscolo e Ciarrapico ci riescono con intelligenza: riutilizzano materiale d’archivio come flashback quando serve, non limitandosi a una ripetizione stantia del già sentito o al puro fanservice (che non manca, va detto): anzi, ampliano quelle stesse icone che hanno contribuito a rendere cult (vedi la battuta su Favino) facendole diventare fonte di nuovi equivoci e nuove risate.

Infine, pur non demordendo da un certo tipo di cinismo “niente abbracci, niente insegnamenti” alla Seinfeld, Boris 4 è anche la serie più malinconica di tutte. Inevitabile lo sia. La dipartita di Roberta Fiorentini (che interpretava la segretaria di edizione Itala) che viene salutata in una delle prime scene con un funerale al personaggio, e la morte prematura dello sceneggiatore Mattia Torre, costringono la storia a fare i conti con il tempo che passa più di tutto il resto, più degli algoritmi e delle politiche inclusive. Lo sguardo affettuoso di Vendruscolo e Ciarrapico verso i loro colleghi durante gli otto episodi si avverte e viene inserito con intelligenza nel tessuto metanarrativo di cui è fatto Boris, e per cui Boris vive: il personaggio dello Sceneggiatore interpretato da Valerio Aprea (uno dei migliori amici di Torre, che ha già recitato suoi monologhi in passato), è chiaramente il loro modo di continuare il dialogo mai interrotto davvero con un amico che è andato via prima del dovuto.
Diventando un omaggio a se stesso e alla sua storia, quindi autocelebrandosi con affetto (diciamolo: se lo è guadagnato), Boris 4 è una lettera d’amore a chi ama questo mondo narrativo grottesco, una serie che non cerca nuovi fan ma accarezza chi ha visto e rivisto le vecchie stagioni: quelle con gente che fa le cose “a cazzo di cane” e che ormai sono parte integrante della nostra vita.

Nicola Laurenza

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