Mangiare carne: un bisogno biologico o economico?
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Che mangiare carne sia un bisogno pare essere un assunto della cultura scientifica occidentale, suffragato da enti di ricerca e istituzioni accademiche e governative (OMS, Sinupe, Efsa, CREA, INRAN ecc.). 150 miliardi di animali vengono macellati ogni anno per soddisfare questo bisogno. Ma l’esistenza di un 14% della popolazione mondiale che non si nutre di carne (100 milioni di vegani e 800 milioni di vegetariani) mette in luce che anche il più tenace dei bisogni fisiologici geneticamente determinati può essere ricalibrato da altre pulsioni attinenti ai processi superiori (sfera psicologica, cognitiva, culturale, spirituale) e a variabili socio-economiche (ricchezza/povertà). Cosa è dunque un bisogno? Da cosa è mosso il comportamento alimentare umano? È sufficiente parlare di bisogno biologico per giustificare l’uso degli altri animali come cibo? Dal punto di vista delle scienze biologiche la definizione dei bisogni si sviluppa per linee crescenti di complessità dal riflesso, al comportamento istintivo determinato da condizioni genetiche, ai bisogni di ordine superiore legati ai processi cognitivi e psichici. Ma lo studio dei bisogni umani interessa anche altre discipline, la sua importanza è dovuta al fatto che il bisogno è un motore del comportamento in grado di veicolare le scelte individuali e collettive sia nella dimensione personale e relazionale che nel contesto organizzativo socio-economico.

Gli studi neuro-psicologici sui bisogni infatti più che nella clinica sono utilizzati in ben altri ambiti. Basti pensare ad esempio all’investimento della Programmazione Neuro Linguistica (PNL) nelle strategie di marketing. Conoscere quale canale sensoriale sia maggiormente sensibile in categorie di persone (potenziali compratori, utenti, consumatori, pubblico) in relazione a variabili sociologiche (età, etnia, sesso, stato, abitudini ecc.) in determinati luoghi e tempi (ore del giorno, mese ecc.) permette ai mercati economici di individuare nuovi prodotti in grado di legarsi a tali sensibilità. La compravendita dei dati personali prodotti dai social network (big data) è considerata sul piano economico il “nuovo petrolio” della quarta rivoluzione industriale. L’elaborazione statistica psicometrica partorisce identikit di oggetti potenzialmente desiderabili in grado di far leva sulla vulnerabilità percettiva del consumatore, sui suoi bisogni che per lo più non sapeva di avere, scovando quello che i ricercatori chiamano fabbisogno implicito.

I beni sono utili perché soddisfano i bisogni o i bisogni sono utili alla produzione di beni che generano profitto?

Il concetto di bisogno è connaturato alla costituzione di una disciplina come l’Economia Politica e già dal XVIII secolo è chiaro che il comportamento economico dell’individuo è legato alla sfera del suo bisogno e che i beni sono utili perché soddisfano i bisogni. Potremmo affermare con la Heller (La teoria dei bisogni in Marx, 1974) che proprio Karl Marx abbia avviato una lettura dialettica biologica-economica-psicologica superando la pretesa di neutralità dei bisogni e svelando come l’organizzazione capitalistica induca e utilizzi istinti pulsionali al fine di aumentare il profitto. Per Marx il bisogno umano è ridotto a bisogno economico attraverso un processo di estraniazione capitalistica dei bisogni. Se la merce è una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo, il fine della produzione di merce è tutt’altro che la soddisfazione dei bisogni (Marx, Il Capitale, libro 1 capitolo 1). Il fine della produzione è la valorizzazione del capitale, cioè
il profitto. Se all’esordio del modo di produzione capitalistico i bisogni della classe lavoratrice erano considerati solo in relazione al loro mantenimento in vita (beni di consumo senza i quali la classe lavoratrice stessa non può riprodursi nella quantità e qualità richieste dal processo di accumulazione capitalistico) presto la stessa classe lavoratrice si trasformerà anche in classe di acquirenti. Sarà la stessa massa che attraverso il processo di strumentalizzazione dei bisogni (che da scopo si fanno mezzo della produzione di massa) non solo viene sfruttata come forza lavoro ma anche come massa di acquisto della merce prodotta.

Lo sfruttamento intensivo dei bisogni

Con la conoscenza della psicofisiologia e delle neuroscienze sappiamo che sulla base di bisogni primari (contatto, sesso, cibo, difesa/attacco) si possono innescare una gamma enorme di comportamenti in forma sublimata e non. Pensiamo all’uso di stimoli erogeni subliminali nelle
pubblicità di prodotti che con il sesso hanno poco a che fare. Secondo un sistema circolare a feed back, un prodotto viene ideato sulla base di qualche dato biologico pulsionale e poi fotografato, filmato e presentato in modo tale da toccare corde profonde dell’essere comprante legate per lo più alla percezione sensoriale e alla sollecitazione del desiderio fino a raggiungere la soglia di starter del comportamento consumatorio. Uno stimolo (visivo, tattile, olfattorio ecc.) come ad esempio “buono da leccarsi le dita” (slogan KFC), tanto per citare una delle migliaia di pubblicità creatrici di rappresentazioni mentali carniane, è in grado cioè di produrre un desiderio sub-cosciente. In questo
caso lo starter sensoriale è gustativo in cui leccare è uno stimolo in grado di produrre attraverso le immagini mentali una decodificazione imitativa nello spettatore attraverso i recettori del gusto. Il processo di (auto)valorizzazione del capitale però non ha pregiudizi. Può indurre desiderio di una marca di insalata lavata come di “scioglievolezza” di un cioccolatino cliccando sullo stesso sistema limbico cerebrale. Il profitto può derivare dalla carne così come da alimenti di provenienza non animale e come è possibile inventare un bisogno, così il mercato economico può cogliere al volo un nuovo potenziale in consumatori di nicchia offrendo loro prodotti costosi specifici come nel caso delle tendenze vegetariane.

Una percentuale della produzione alimentare si sta infatti spostando in direzione di nuovi mercati; i produttori di mais e soia per l’industria degli allevatori possono diventare autonomi e vendere per la produzione di bistecche vegetali (Splitter 2021). Nuovi vettori come la crescente consapevolezza dell’effetto degli allevamenti sulla crisi climatica, la conoscenza che mangiare carne fa male alla salute e la questione etica, nel 2019 pare abbiano fatto balzare in alto l’industria vegana dirottando parte dell’industria della carne sugli investimenti vegan. Perché allora dopo l’iniziale boom è arrivata la cosiddetta crisi della vegan economy? Secondo alcune analisi economiche (Dertona 2022) questo dipende dal fatto che i prodotti vegani sono più costosi, e i maggiori consumatori vegan sono i millennials, che sono anche quelli con minore autonomia economica e meno stabilità lavorativa. L’inflazione è alle stelle, i prezzi dei beni alimentari (e non solo) salgono in tutto il mondo e i consumatori fanno scelte meno costose. Mangiare carne e derivati costa meno ai compratori e fa guadagnare di più agli investitori. L’azienda californiana Beyond Meat, la prima azienda vegana quotata in borsa, licenzia i lavoratori, così come Impossible Food; JBS abbandona la produzione veg incrementando quella di carne animale. E mentre la vegan economy decresce il mercato della sola carne bovina mondiale che secondo fonti USDA nel 2021 ammontava a 11,6 miliardi di dollari, secondo uno studio FMI (Future market insight) nel 2031 arriverà a valere 18 miliardi di dollari.

Le grandi industrie di produzione di carne non hanno vantaggi a trasformarsi e nonostante gli evidenti svantaggi e problemi causati dall’industria zootecnica, la produzione mondiale di carne è quadruplicata nell’arco di soli cinquant’anni. Ancora oggi, ad esempio, gli Stati sostengono con generosi sussidi questo settore produttivo. Secondo un rapporto pubblicato da Greenpeace nel 2019, solo l’Unione Europea destina ogni anno, nell’ambito della PAC (Politica Agricola Comune), 28-32 miliardi di euro a sostegno degli allevamenti. Un recente rapporto condotto congiuntamente da FAO, UNDP e UNEP stima che su scala globale i sussidi all’agricoltura, molti dei quali sovvenzionano l’industria della carne, abbiano raggiunto tra il 2013 e il 2018 la cifra di circa 540 miliardi di dollari l’anno: di questi, l’87% (pari a 470 miliardi di dollari) ha finanziato attività dannose sul piano sociale e ambientale.

Per il sistema di produzione capitalistico uccidere animali è più conveniente che coltivare piselli, peperoni, ceci. Il bisogno di strappare carne coi canini e l’attrazione per il sangue potrebbero anche essere ri-modulate, così come il fabbisogno proteico potrebbe essere garantito attraverso invenzioni alimentari più evolute e cruelty-free, ma gli animali sono una materia prima più conveniente per adesso. Quindi è preferibile coniare slogan ad hoc per bypassare le questioni etiche e inverdire le etichette degli hamburger piuttosto che cambiare tipo di produzione. Nel best-seller “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche” Melanie Joy (2012) scrive che il sistema di credenze che sostiene le nostre abitudini alimentari si basi su un paradosso: reagiamo ai diversi tipi di carne perché percepiamo diversamente gli animali da cui essa deriva. Nella “dittatura della consuetudine” la massa aderirebbe al carnismo in modo inconsapevole e attraverso la sollecitazione di meccanismi psicologici di difesa come la rimozione, la negazione, l’occultamento dell’eccidio, il cosiddetto sistema che mantiene obnubilate le coscienze. Dal punto di vista economico è indifferente se il guadagno proviene da una bistecca di carne o di soia. Ma pare che la carne produca molto più capitale di altro cibo e quindi è più remunerativo rimodulare la comunicazione per far in modo che si possa continuare a mangiare carne ma senza averne la consapevolezza. Far leva su bisogni più arcaici ereditati dagli Ominidi di 2 milioni e mezzo di anni è più conveniente per la grande industria alimentare. Uno stimolo massmediologico può sollecitare risposte istintive come per esempio quelle di soddisfare il desiderio di divorare la carne, anche attraverso edulcorate formule di negazione della sofferenza animale. È così che gli esseri umani possono trasformarsi in consumatori seriali non di ciò di cui hanno effettivamente bisogno, ma di ciò che questo sistema di produzione può creare per soddisfare bisogni che esso stesso sollecita al fine di farne profitto.

di Sara Della Giovampaola, Gruppo di Antispecismo Politico

Gruppo di Antispecismo Politico
Gruppo di Antispecismo Politico è un collettivo ecosocialista antispecista con un approccio multidisciplinare, attivo nello studio e nella ricerca sui temi della giustizia animale e sociale. Ci proponiamo, fra le altre cose, di indagare e denunciare l’influenza del neoliberalismo sul mondo della lotta per i diritti e la liberazione animale e su quello dei movimenti sociali in generale.

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