Modi - India - democrazia etnica
Il Primo Ministro indiano, Narendra Modi, al Shri Tukaram Maharaj Shila Mandir a Dehu, nel Maharashtra, il 14 giugno 2022 (fonte: Government of India - Press Information Bureau)

L’India è stata a lungo considerata il Paese democratico “più grande del mondo”, quantomeno da un punto di vista demografico. Tuttavia, sotto il governo di Narendra Modi, sono emerse diverse discussioni riguardanti la natura e la solidità della democrazia indiana. Se si analizzano le politiche etniche e religiose e il loro impatto sulla società del Paese, L’India di Modi è definibile come una “democrazia etnica”.

Secondo la definizione data da Sammy Smooha, ricercatore israeliano e professore di sociologia, la democrazia etnica è un tipo di sistema politico in cui l’intera popolazione deve obbligatoriamente aderire alla cultura della maggioranza, classificando così le minoranze come cittadini di seconda classe. Questa definizione descrive esattamente la situazione in cui si trova l’India oggi.

La promozione e il rafforzamento dell’identità etnico-religiosa indù da parte di Modi

L’Hindutva, l’ideologia nazionalista indù, è uno degli aspetti centrali della politica del Bharatiya Janata Party (BJP), il maggior partito conservatore del Paese, di cui il Primo Ministro Modi è il principale esponente. Egli è stato definito Hindu Hriday Samrat (“imperatore dei cuori indù”) in seguito al pogrom anti-musulmano del 2002 nel Gujarat amministrato allora da Modi, ritenuto da alcuni complice delle violenze, anche se poi assolto. Lui stesso si è apertamente descritto come “nazionalista indù” in un’intervista alla vigilia delle elezioni del 2014. Inoltre, il manifesto elettorale del BJP dichiarava che «l’India rimarrà una casa naturale per gli indù perseguitati, che saranno benvenuti a cercare rifugio qui». Questa affermazione è in linea con il programma politico di Modi, che punta a creare il cosiddetto Hindu Rashtra, ovvero uno Stato per gli indù dominato da indù

Per creare una coesione tra la popolazione indù, oltre a sfruttare l’identità etnico-religiosa, Modi ha anche identificato un nemico comune: i musulmani – e, per estensione, anche il vicino Pakistan. Christophe Jaffrelot, un politologo e indiologo francese, nel saggio “Modi’s India: Hindu Nationalism and the Rise of Ethnic Democracy” ha sostenuto che «mobilitando gli indù contro i musulmani, il Sangh Parivar ha spinto ampie fasce di massa a non mettere più in primo piano la propria identità di casta, bensì l’appartenenza alla comunità maggioritaria destinata a governare l’India. Questo approccio fu particolarmente efficace con i giovani arrabbiati della nuova classe media». 

In questo contesto, l’identità è soprattutto un atto di esclusione. Citando le parole di Vinayak Damodar Savarkar, il politico, attivista e scrittore indiano che sviluppò l’ideologia politica nazionalista indù dell’Hindutva: «[…] noi indù siamo legati insieme non solo dal legame dell’amore che porta a una patria comune e dal sangue comune che scorre nelle nostre vene, ma anche dall’omaggio comune che rendiamo alla nostra cultura indù […] siamo un tutt’uno perché siamo una nazione, una razza e possediamo una sanscriti comune […] nel caso dei nostri compatrioti maomettani o cristiani […] anche se l’Hindustan per loro è la Patria […] tuttavia non è anche la loro Terra Santa. La loro mitologia e i loro uomini di Dio […] non sono figli di questo suolo […] i loro nomi e il loro modo di vedere sanno di un’origine straniera […]».

Narendra Modi e il capo dell'RSS, Mohan Bhagwat, eseguono il Bhoomi Pujan al Shri Ram Janmabhoomi Mandir, ad Ayodhya, mercoledì 5 agosto 2020
Narendra Modi e il capo dell’RSS, Mohan Bhagwat, eseguono il Bhoomi Pujan al Shri Ram Janmabhoomi Mandir, ad Ayodhya, mercoledì 5 agosto 2020 (fonte: Government of India – Press Information Bureau)

Un fatto indicativo della situazione indiana è rappresentato dall’impegno di Modi per la costruzione del tempio di Rama ad Ayodhya, in Uttar Pradesh. Infatti, secondo il Ramayana, uno dei grandi poemi epici sanscriti, la città di Ayodhya sarebbe il luogo di nascita di Rama, una delle principali divinità dell’induismo. In precedenza, sul terreno destinato alla costruzione del tempio sorgeva una moschea, la Babri Masjid, che fu demolita nel 1992 da un gruppo di nazionalisti indù appartenenti al Vishva Hindu Parishad e altre organizzazioni alleate, scatenando delle rivolte in tutto il subcontinente indiano.

Già a partire dal XIX secolo c’erano stati diversi conflitti e controversie giudiziarie tra indù e musulmani sulla moschea. Nel 1949, dopo che l’India divenne indipendente, gli attivisti indù associati all’Hindu Mahasabha collocarono di nascosto gli idoli di Rama all’interno della moschea, dopodiché il governo chiuse l’edificio per evitare ulteriori controversie.

Dopo anni di processi e ricorsi alla Corte Suprema, solo nel 2019 si decise di consegnare il terreno a un trust formato dal governo indiano, il Shri Ram Janmabhoomi Teerth Kshetra, per la costruzione di un tempio di Rama. Il 5 febbraio 2020 fu annunciato in Parlamento che il governo di Modi aveva accettato un piano per la costruzione del tempio, i cui lavori dovrebbero essere ultimati per il 2024 – anno delle prossime elezioni.

Il caso del tempio di Rama ad Ayodhya incarna appieno ciò che è una democrazia etnica, in quanto – sempre citando Jaffrelot – «la magistratura ha sancito legalmente i sentimenti religiosi della comunità più ampia e ha liquidato gli oppositori come antinazionali che possono essere solo cittadini di seconda classe e repressi». 

Le riforme politiche a favore della maggioranza

Le politiche del governo di Modi hanno spesso favorito la maggioranza indù a discapito delle altre minoranze. Un esempio è il Citizenship Amendment Act (CAA) del 2019 che utilizza l’appartenenza religiosa come criterio per ottenere la cittadinanza indiana, escludendo esplicitamente i musulmani. La legge, infatti, concede la cittadinanza ai rifugiati non musulmani provenienti dal Bangladesh, dal Pakistan e dall’Afghanistan, sulla base di una presunta persecuzione religiosa nei loro Paesi d’origine. Questa legge sembra riflettere l’obiettivo a lungo termine di definire l’India come patria per gli indù.

Il governo di Modi nell’agosto 2019 ha poi abolito l’articolo 370 della Costituzione indiana, che sanciva lo status di semi-autonomia della regione a maggioranza musulmana del Kashmir. In molti la considerarono una mossa incostituzionale, ma la propaganda nazionalista sosteneva che si trattasse di un modo per «unire il Paese dietro un’unica idea di India in cui non ci sono diferrenze speciali per aree diverse». Dunque, secondo la visione del governo centrale, si trattava di un modo per tenere unita l’India, anche se in realtà questa decisione mostra una strategia volta a subordinare i territori a maggioranza musulmana a quelli a maggioranza indù.

La protezione della vacca, l’animale più sacro dell’induismo, è un’altra questione fondamentale per i sostenitori odierni dell’Hindutva ed è l’ennesima prova di come la sfera religiosa indù stia fagocitando quella sociale e pubblica indiana. 

Nel 2012 Modi, durante la campagna elettorale in Gujarat, sfruttò questa tematica quando si scagliò contro la “rivoluzione rosa” – termine utilizzato per indicare le rivoluzioni tecnologiche nel settore della lavorazione della carne di bufalo e pollo – di cui incolpò l’attuale partito di opposizione, l’Indian National Congress (INC). Nel 2014 postò questo messaggio sul suo blog: «Mi rattrista che l’attuale governo dell’UPA, guidato dal Congresso, promuova la macellazione delle vacche e l’esportazione di carne bovina per portare la rivoluzione rosa». Modi affermò che si trattasse di carne bovina, nonostante fosse pienamente consapevole che fosse di bufalo. 

Narendra Modi durante una cerimonia nel distretto di Banaskantha, in Gujarat
Narendra Modi durante una cerimonia nel distretto di Banaskantha, in Gujarat (fonte: Government of India – Press Information Bureau)

Fino al 2019, furono approvate poche leggi con un impatto negativo sui musulmani e tra queste vi è l’Enemy Property Amendment Act del 2017. In base a tale legge, «i cittadini musulmani dell’India che avevano ereditato una proprietà da un antenato emigrato in Pakistan o che avevano acquistato una proprietà da una persona emigrata in Pakistan, perdono ogni diritto legale su di essa».

Dopo il 2019, oltre all’emendamento dell’articolo 370, nel 2020 venne emanata un’ordinanza in Uttar Pradesh che vietava qualsiasi conversione religiosa a scopo matrimoniale, a meno che non fosse stata ottenuta l’autorizzazione preventiva dello Stato. Infatti, qualsiasi individuo che tuttora vuole convertirsi prima di sposarsi deve rivolgersi al magistrato distrettuale, il quale deve chiedere alla polizia di verificare la “reale intenzione”, lo “scopo” e la “causa della conversione religiosa proposta”. Se la conversione è attribuibile a “qualsiasi dono”, “gratificazione”, “stile di vita migliore” o per timore di “dispiacere divino”, allora può essere avviata un’azione penale contro la persona che ha “causato” la conversione. Tale ordinanza è stata un chiaro tentativo di legalizzare la lotta contro la “jihad dell’amore” – espressione che si basa su una teoria del complotto secondo cui gli uomini musulmani, che a volte si fingono indù, sposano donne indù con il solo scopo di convertirle all’Islam e avere figli musulmani.

Infatti, secondo la percezione comune, il peccato peggiore e più persistente dei musulmani sarebbe lo stupro. Sempre citando le parole di Savarkar, l’ideatore dell’Hindutva: «era un dovere religioso di ogni musulmano rapire e costringere alla propria religione le donne non musulmane. Questo incitava la loro sensualità e la loro brama di carneficina e, mentre aumentava il loro numero, colpiva in modo inversamente proporzionale la popolazione indù. […] I musulmani […] consideravano loro dovere altamente religioso portare via con la forza le donne della parte nemica come se fossero beni comuni, violentarle, inquinarle e distribuirle a tutti e a tutte […] e assorbirle completamente nel loro ovile […] il che aumentava il loro numero […]».

Subito dopo la promulgazione dell’ordinanza, sono state registrate molte denunce contro i matrimoni interreligiosi. La situazione è peggiorata al punto tale da spingere l’Alta Corte di Allahabad a ordinare alla polizia di proteggere le coppie «che stavano affrontando minacce alla vita e alla libertà da parte dei parenti a causa del loro matrimonio al di fuori della casta/religione».

Il controllo sulla narrazione storica

Il governo di Modi ha cercato di influenzare la narrazione storica in India, sottolineando l’importanza dell’eredità indù e minimizzando l’impatto delle altre culture e religioni. Questo controllo sulla narrazione storica contribuisce a rafforzare l’identità etnico-religiosa indù e promuovere una visione dell’India come democrazia etnica.

Qualche settimana dopo la sua elezione, Modi si rivolse per la prima volta al Parlamento, facendo riferimento ai “1200 anni di servitù” che gli indiani hanno subito. Secondo Indrajit Roy, docente di Global Development Politics presso il Department of Politics della York University, «si trattava di un riferimento non troppo velato alla presenza dei musulmani nel subcontinente indiano e ai relativi racconti di conquista, saccheggio e dominazione da parte degli invasori di fede islamica».

Modi si concentra molto sui poemi epici antichi, che vengono presentati come un riflesso accurato della realtà storica. Inoltre, ritiene che le invasioni musulmane abbiano aperto il capitolo più buio della storia indiana, a partire dalla distruzione dell’Università di Nalanda nel XII secolo fino alla fine dell’Impero Moghul. Critica anche il movimento di liberazione nazionale che, secondo Modi, attribuisce troppa importanza a Gandhi e Nehru rispetto agli eroi indù nazionalisti. Secondo Jaffrelot, «per gli ideologi nazionalisti indù, questi gravi difetti derivano dalla natura laicista o occidentalizzata degli autori dei testi di storia».

Il revisionismo storico nazionalista mira a fornire argomenti per rivendicare una sorta di superiorità e quindi a dimostrare che gli indù di oggi discendono direttamente dai primi abitanti della Terra molte migliaia di anni fa. Dopotutto, in base al loro pensiero, «se il Corano e la Bibbia sono considerati parte della storia, allora qual è il problema nell’accettare i nostri testi religiosi indù come storia dell’India?»

Narendra Modi al Ramlila a Lucknow nel 2016 (fonte: Narendra Modi su Twitter)

Siccome l’istruzione sia primaria sia secondaria è di competenza degli Stati, l’influenza del revisionismo storico dei nazionalisti indù si nota soprattutto negli Stati governati dal BJP. 

Dinanath Batra, un membro dell’RSS, fu incaricato di scrivere diversi libri di storia secondo i canoni del nazionalismo indù. In particolare, ciò avvenne per due Stati, il Gujarat e l’Haryana: in quest’ultimo caso, fu nominato capo del comitato, incaricato di rinnovare il sistema educativo quando il BJP vinse le elezioni nel 2014 e introdusse i libri di testo di educazione morale che aveva scritto per le scuole del Gujarat. Sei di questi libri sono stati introdotti nell’autunno del 2015 per le classi da 7 a 12 (dai tredici ai diciotto anni). Tutti iniziano con una lode alla dea Saraswati, ma Batra sostiene che non si tratti di una forma di induismo: «Saraswati non è una figura religiosa. Ogni parte della dea è un simbolo di qualità che ogni studente dovrebbe emulare… Quale studente musulmano di buon senso non vorrà avere queste qualità?» I libri di testo includono anche una poesia di Batra: «Ho un sogno, quello di costruire una scuola sulle fondamenta dell’Hindutva e del patriottismo».

Lo Stato più attenzionato dai media, tuttavia, è stato il Rajasthan, dove sono stati apportati notevoli cambiamenti ai libri di testo di storia: nel manuale di scienze sociali della classe 10, il re Rajput è stato presentato come vittorioso nella battaglia di Haldighati contro l’imperatore Akbar – contrariamente alle conclusioni dei ricercatori. Il nuovo libro ha puramente e semplicemente omesso di menzionare Jawaharlal Nehru e l’assassinio di Mahatma Gandhi, contrariamente al libro di testo utilizzato quando l’INC era al governo. Il ministro dell’Istruzione, Vasudev Devnani, ha spiegato questi cambiamenti affermando il suo desiderio di insegnare ai bambini le gesta dei personaggi storici più importanti del Rajasthan, per renderli orgogliosi della cultura indiana e creare cittadini patriottici.

L’India di Modi: una “democrazia imperfetta” e “parzialmente libera”

Dal 2020, secondo i tre i principali indici che misurano la qualità della democrazia nel mondo, l’India viene considerata “parzialmente libera” (secondo Freedom House), una “democrazia imperfetta” (secondo The Economist Intelligence Unit) e una “autocrazia elettorale” (secondo V-Dem). Infatti, nonostante i vari problemi interni ed esterni del Paese, l’India conserva – almeno in parte – il suo carattere democratico: le elezioni risultano essere ancora libere e prive di brogli, la libertà di espressione viene rispettata e alcune minoranze – come le Other Backward Castes e le Scheduled Castes – vengono tutelate tramite il sistema delle riserve.

Tuttavia, dopo l’elezione di Modi nel 2014, l’India ha assunto sempre di più l’aspetto di una democrazia etnica – non più solo de facto, ma anche nella pratica, attraverso la promulgazione di leggi apposite. Il governo mira a costruire uno Stato su misura per la maggioranza indù, alla quale le altre minoranze sono costrette a doversi adattare. La promozione e il rafforzamento dell’identità etnico-religiosa indù, le riforme politiche a favore della maggioranza e il controllo sulla narrazione storica ne sono un chiaro esempio. 

L’evoluzione dell’India verso una democrazia etnica non può non sollevare diverse preoccupazioni riguardo la salvaguardia dei diritti e delle libertà delle minoranze religiose ed etniche del Paese. L’accentramento del potere e l’adozione di politiche che favoriscono una specifica identità religiosa minano i principi fondamentali della democrazia, come l’uguaglianza, la diversità e l’inclusione.

Con l’ampio consenso popolare da parte dei cittadini indiani, per oltre l’80% di religione indù, probabilmente Modi sarà presto in grado di realizzare il suo progetto politico per rendere ufficialmente l’India un “Hindu Rashtra”. 

Matthew Andrea D’Alessio

Matthew Andrea D'Alessio
Sono nato nel 1999 e ho trascorso la mia infanzia leggendo libri e scrivendo storie. Questa passione mi ha spinto a intraprendere gli studi umanistici all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove mi sono laureato in lingue orientali. Convinto che la conoscenza debba essere alla portata di tutti, collaboro con Libero Pensiero per diffondere l’informazione nel rispetto dell’obiettività giornalistica.

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