Lega di Salvini alla ricerca di ultime spiagge dopo il Papeete
Fonte: lapresse.it

Dopo la ritirata dal governo Lega-M5S Salvini, più che ad un Capitano, somiglia ad un Don Chisciotte del Papeete: ed è dal Papeete in poi che sta tentando ultime spiagge (come la giornata dell’orgoglio italiano a ottobre) per recuperare qualche percentuale di consenso. Rauco, avvilito, senza charme, disperato nel tentativo di utilizzare la stessa ricetta da campagna elettorale (basata su fake news, enfatizzazioni e mostri sociali che non esistono) per far risuonare di applausi le piazze.

Ma di fatto, più che applausi Salvini sta ottenendo fischi e reclami. Un periodo concitato, una carta politica giocata male, che per alcuni potrebbe significare rinascita, ma allo stato attuale ha più la fisionomia di una condanna a morte. L’errore di abbandonare la scialuppa del Governo Conte 1, in realtà, è stato percepito come tale non solo dall’ingenuo o impulsivo Salvini (che per un attimo si è riaperto al M5S sul taglio dei parlamentari, annusando il pericolo), ma anche dalla sua crew leghista che dopo l’esperienza di Governo poco o niente può dire di aver fatto per i suoi elettori.

I veri motivi della ritirata di Salvini dal contratto con il M5S sono noti soltanto all’autore di questa scelta inopinabilmente pessima e suicida dal punto di vista politico; forse mosso da ingenuità, da calcoli politici errati, da un eccesso di hybris, forse suggerito male da qualche amico, e a questo punto si potrebbe legittimamente pensare che il suocero di Salvini (Denis Verdini) nel consigliare, abbia appoggiato più Berlusconi, di cui fu fedele braccio destro.

Scese le scale di Montecitorio, chiusa la porta, per Salvini si apre il portone dell’elettorato leghista al cui interno proliferano malumori e cui deve dar conto. Da Giorgetti che lancia provocazioni alla Lega, a Giovanni Fava, leghista dissidente, che afferma che «Salvini rischia di fare la stessa fine di Renzi: interessato solo ai sondaggi, obnubilato da un consenso molto fluido, indifferente alle esigenze di partito e alle istanze del territorio».

Il dissenso aumenta non solo tra i politicanti leghisti ormai senza poltrona, bensì in quell’elettorato ancestrale della Lega padana che voleva l’autonomia e non l’ha avuta, voleva la flat tax e non l’ha avuta, voleva i porti chiusi e li ha avuti solo apparentemente. Tutto un bluff: è facile promettere in campagna elettorale, ma quando le promesse bisogna realizzarle è ugualmente facile scappare.

La facilità e la semplicità, di fatto, sono stati i cavalli di battaglia di Salvini, che ha reso elementari concetti di economia politica, flussi migratori internazionali, precarietà, corruzione, con semplici tweet: ha spiegato problemi sociali come la disoccupazione riciclando falsi miti degli immigrati che rubano il lavoro, ha reso la politica fruibile al palato di una porzione di popolo svogliato quando si tratta di informarsi. Nei discorsi di Salvini nemmeno una parola è stata centellinata, tanti invece i rigurgiti di rabbia e le semplificazioni.

Con la stessa facilità di un tweet si è stancato della democrazia parlamentare ed è tornato a urlare nelle piazze dove sul palco c’è lui e lui soltanto. Del resto, in Parlamento bisogna dialogare: il problema è che Salvini non ama il contraddittorio, invece è ammaliato (o malato) dall’egocentrismo. Antonio Gramsci scriveva: «Se alla politica quotidiana manca il retroterra fornito dall’analisi economica e dalla capacità di interpretare le forze reali presenti nella società e di organizzarle, ecco allora che essa decade a personalismo, retroscena, manovra politicista».

Slogan facili e concetti superficiali sono ingredienti ottimi per la propaganda elettorale, ma quando c’è da amministrare è il grado di superficialità che contraddistingue i capipopolo dai leader: «Comanda chi sa» scriveva Enzo Biagi, e chi non sa dura poco (come si è visto).

Cosa ne sarà di Salvini se perde la leadership della Lega?

Indubbiamente l’ex Capitano ha nel curriculum l’aver fatto guadagnare un bel po’ di punti alla Lega rispetto a qualche anno fa, ma (sebbene la politica non si faccia con i sondaggi) ne sta perdendo con altrettanta rapidità sia in termini di percentuali, sia in termini di ascolti (recentemente Salvini ospite da Vespa a Porta a Porta ha fatto flop), sia di piazza (alla manifestazione fuori Montecitorio il fiume di persone atteso è risultato abbastanza arido).

All’interno della Lega sono pochi quelli che esprimono pubblicamente dissenso, ma la tensione è palpabile: se per adesso si tratta di voci fuori dal coro e lamentele sottovoce, un domani potrebbe ingigantirsi questa spaccatura e organizzarsi in una crisi di partito più grave. A quel punto la mistica ricetta politica salviniana del Prima gli italiani e del Cuore Immacolato di Maria lo condurranno nello stesso girone dell’inferno politico dove dimorano Bossi, Renzi e tutti i capipopolo in disgrazia.

Per ora non si intravede strategia politica alternativa: Salvini sta solo sparando gli ultimi fuochi da populista provando a recuperare credibilità con lo stesso genere di iniziative che appaiono desuete, artefatte, composte da slogan monotoni e un leader con caratura politica ricca di chiacchiere e povera di concretezza.

La rappresentazione apologetica che Salvini ha dispensato di se stesso è stata una sliding door che avrebbe potuto o condurlo al comando esclusivo o alla sindrome del pugile suonato che nonostante tutto continua a puntare sulla stessa carta di rabbia, caos e vittimismo da overdose. Al tempo (e alla magistratura) l’ardua sentenza.

Melissa Bonafiglia

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