Nel deserto di Atacama, una discarica per i nostri abiti usati
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«Noi non veneriamo né le Grazie né le Parche, ma la Moda». Centosettanta anni dopo la pubblicazione di “Walden, ovvero vita nei boschi” di Henry David Thoreau, il fast fashion, uno degli ultimi aborti del capitalismo, ha conquistato il mondo, o meglio, il Primo Mondo. Nei Paesi sviluppati l’abbigliamento low-cost fa tendenza, frutta miliardi di dollari, crea lavoro ed è in qualche modo idolatrato da coloro che ne fanno uso. Economico, di bassa qualità, subito fuori moda: tre caratteristiche che rendono perfettamente evidente l’insostenibilità di un certo tipo di stile di vita e che, come tutto ciò che ha a che fare con il consumismo, si ripercuotono in maniera disastrosa sull’ambiente. Centosettanta anni dopo la pubblicazione di uno dei testi più conosciuti del filosofo di Concord (Massachusetts, USA), con lo sguardo rivolto verso una delle aree più aride e inospitali del Pianeta, gli abitanti del Cile hanno capito di avere un problema. Il deserto di Atacama si è trasformato in una discarica di abiti usati.

Fast fashion, fast pollution

«L’industria della moda sta affrontando un crescente controllo globale sulle sue operazioni della catena di approvvigionamento inquinanti per l’ambiente. Nonostante gli impatti ambientali ampiamente pubblicizzati, tuttavia, l’industria continua a crescere, in parte a causa dell’aumento della moda veloce, che si basa su una produzione a basso costo, un consumo frequente e un uso di indumenti di breve durata». L’articolo “The environmental price of fast fashion” pubblicato sulla rivista scientifica Nature quantifica l’impatto ambientale del settore tessile. È stato calcolato che ogni anno il comparto della moda è responsabile della produzione di 92 milioni di tonnellate di rifiuti e del consumo di 79 trilioni di litri d’acqua.

Nella lunga filiera dell’industria tessile l’utilizzo di prodotti chimici e di energia implicano effetti dannosi non solo per gli ecosistemi naturali, ma anche per gli operai e, non ultimi, per i consumatori. Il tasso d’inquinamento subisce un considerevole incremento se si considerano i metodi di produzione e l’accessibilità economia degli indumenti low-cost. Secondo il report infatti «Il fast fashion ha aumentato il flusso di materiale nel sistema. I marchi di moda oggi producono quasi il doppio della quantità di abbigliamento rispetto a prima del 2000».

Dati che, secondo i ricercatori coinvolti nello studio, evidenziano la necessità di urgenti cambiamenti nel business della moda. Un’innovazione che dovrà riguardare produttori e consumatori. Se l’industria tessile avrà il dovere rallentare la produzione e di ripensare la filiera produttiva in chiave ecosostenibile, ai consumatori toccherà modificare quel comportamento consumistico che ad oggi non possiamo più permetterci poiché ambientalmente insostenibile. Dire addio agli abiti economici e di bassa qualità, preferendo indumenti che durino nel tempo. Una nuova ma vecchia abitudine attraverso la quale diminuire la pressione ecologica di un settore che, nonostante gli annunci eclatanti delle aziende produttrici a cui seguono pochi fatti, fattura miliardi di dollari ogni anno a discapito, come sempre, dell’ambiente.

Ne sanno qualcosa i cileni. Nel deserto di Atacama, ecoregione situata tra il Perù meridionale e il Cile settentrionale, tra infinite distese di sabbia, dune e colli riarsi, disarmonici mucchi multicolore spezzano la crudele armonia paesaggistica di uno dei luoghi più aridi al mondo. Non si tratta del rarissimo fenomeno della fioritura settennale, miracolo naturale che dona colore e vita in un’area tanto affascinante quanto mortale, ma di vere e proprie colline formate da abiti usati.

Cosa sta accadendo nel deserto di Atacama?

Centocinquemila chilometri quadrati di aridità stretti tra le Ande e l’oceano Pacifico meridionale. Nel deserto di Atacama la pioggia, evento più che raro, dona vita e, al contempo, causa morte. La fioritura mozzafiato delle circa 200 specie floreali favorita dalle poco frequenti precipitazioni, regala uno spettacolo agli occhi dei turisti che osano spingersi fin qui. Negli ultimi anni però, anche a causa dell’inasprirsi dei cambiamenti climatici, la pioggia è diventata un problema. Secondo un articolo pubblicato su Nature Scientific Reports, l’improvvisa immissione di acqua in regioni iper-aride come il deserto di Atacama è motivo di devastazione delle specie microbiche che si sono adattate a vivere in condizioni di estrema siccità.

Gli effetti del climate change si sommano a un crescente inquinamento dell’aria dovuto principalmente alle attività minerarie della zona e alle emissioni locali. Un articolo apparso su ScienceDirect suggerisce che negli ultimi anni le concentrazioni di polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) e di anidride solforosa (SO2) hanno superato i limiti giornalieri e annuali contenuti nelle linee guida dell’OMS.

L’inquinamento dell’aria non è il solo problema che preoccupa gli abitanti delle cittadine adiacenti al deserto di Atacama. Tra dune di sabbia ardente sono infatti spuntate dune di abiti usati provenienti dal tutto il mondo. Delle 59.000 tonnellate di vestiti che annualmente arrivano nel porto di Santiago, capitale del Cile situata a 1.800 km di distanza, circa 39.000 tonnellate finiscono in discariche improvvisate nel deserto. È lo scarto del consumismo, di un’abitudine che sta provocando l’esaurimento delle risorse naturali e la distruzione di luoghi tanto remoti quanto incantevoli. L’abbigliamento low-cost è prodotto infatti con materiali sintetici e trattato con prodotti chimici. Se lasciata all’aperto o interrata, una maglietta economica e di bassa qualità, usata per un tempo brevissimo, impiega circa 200 anni per biodegradarsi. Durante questo periodo gli abiti usati rilasciano sostante altamente tossiche nel terreno, nell’aria e nelle falde acquifere. Un’inquinamento che si somma all’abnorme sperpero di risorse naturali, frutto del fast fashion, il continuo rincorrere della moda del momento.

Mentre i Paesi sviluppati venerano comportamenti collettivi altamente inquinanti, nel deserto di Atacama si cercano soluzioni. «Volevo smettere di essere il problema e iniziare ad essere la soluzione» ha dichiarato Franklin Zepeda, fondatore di EcoFibra, un’azienda che basa la propria attività sui principi dell’economia circolare. Nata nel 2016, EcoFibra è una delle molte imprese che tentano di risolvere la problematica degli abiti usati e abbandonati nel deserto di Atacama. Gli scarti tessili risultano essere ottimi materiali per la creazione di materia prima utile alla produzione di pannelli di isolamento termico e acustico, oggi molto richiesti nel settore dell’edilizia.

Le soluzioni come quelle messe in campo da Franklin Zepeda e altri imprenditori cileni rappresentano senz’altro un tampone contro l’emorragia consumistica riguardante, in questo caso, gli abiti usati. Una soluzione maggiormente efficace, come suggerito dalla scienza, è però nel cambiamento economico-sociale dei popoli dei Paesi sviluppati. Il soddisfacimento senza limiti di bisogni non essenziali, basato sul sovrasfruttamento delle risorse naturali e indotto da pressioni pubblicitarie e fenomeni d’imitazione sociale, sta distruggendo interi ecosistemi e la vita di milioni di persone. Senza un capovolgimento delle logiche consumistiche, luoghi incantevoli come il deserto di Atacama o le spiagge dei Caraibi, saranno presto le nuove discariche della società dei consumi.

Marco Pisano

Marco Pisano
Sono Marco, un quasi trentenne appassionato di musica, lettura e agricoltura. Da tre e più anni mi occupo di difesa ambientale e, grazie a Libero Pensiero, torno a parlarne nello spazio concessomi. Anch'io come Andy Warhol "Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare". Pace interiore!

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