afghanistan frozan safi
Fonte: AP Photo / Wali Sabawoon via "il Dubbio"

Non è bastato spegnerle la voce, non è bastato fermare la sua vita, mettere in pausa le sue battaglie. Le hanno dovuto cancellare il volto. In Afghanistan, Frozan Safi, attivista per i diritti umani e docente di economia, viene presa con l’inganno e, nel silenzio, lontano dai riflettori della propaganda, viene uccisa.

È così che i talebani, i nuovi padroni dell’Afghanistan, impongono le nuove regole al loro Paese. È così che dettano il ritmo della vita quotidiana. È il ritmo della paura, quello scandito dai proiettili: colpi in viso, colpi sulle gambe, colpi sul petto. Fino a quando non rimane nient’altro che un ammasso di vestiti, un ammasso di carne sporcato dal sangue, un ammasso di stoffa mischiata alla pelle.

Come si uccide una ragazza di 29 anni? Quanti anni aveva chi ha esploso i colpi che l’hanno colpita al volto? In cosa devi credi se sei in grado di attirare in un luogo di morte una ragazza – e con lei altre tre – con l’inganno di una vita sicura?

Afghanistan, cosa succede se uccidere non basta?

Succede all’inizio di novembre: i corpi di quattro donne vengono trovati in una casa. Quattro donne che, in un regime quale quello afghano, che ha giurato fedeltà ad un solo uomo e solo gli uomini rispetta, che ha imposto, dal suo insediamento, divieti insostenibili, regole che riportano il Paese indietro di secoli, rappresentano una terribile minaccia.

Tra loro, anche Frozan Safi. Ventinove anni, docente di economia e attivista per i diritti umani, Safi aveva fatto richiesta di asilo in Germania. Secondo la ricostruzione di The Guardian, in una serata verso la fine di settembre, l’attivista avrebbe ricevuto una chiamata da un numero anonimo. Poche parole, l’urgenza di raccogliere scritti, libri e documenti e la promessa di un rifugio. Frozan si fida, esce di casa e, da quel momento, di lei la famiglia non ha più notizie, fino a quando il suo corpo non viene condotto all’obitorio di Mazar-i-Sharif per il riconoscimento.

Il volo tumefatto, il corpo devastato dai proiettili, scomparsa la borsa e con essa i documenti: la sorella la riconosce dai vestiti. Delle altre tre donne, invece, nessuna traccia per ricostruirne l’identità. Si tratta con ogni probabilità di attiviste e professioniste afghane.

Cancellare il volto, cancellare l’identità

Le hanno colpito il volto, per rendere Frozan Safi irriconoscibile. Irriconoscibile persino per la sua famiglia. Le hanno strappato l’identità, e l’hanno fatto a colpi di proiettili. Perché a volte non basta rapire, non basta far sparire, non basta mettere a tacere per sempre. Per affermarsi, farsi spazio e assicurarsi l’obbedienza, bisogna annientare chi si oppone.  

Da oriente ad occidente, in Afghanistan come a Pechino, sia per una passione malata che per questioni politiche, è così che il possesso dell’uomo si esercita sulla donna. L’uomo crede di possedere ogni cosa della donna: il suo corpo, i suoi pensieri, la sua vita. E così, per chi si ribella, per chi sfugge a questo sistema malato, non resta che soffrire la cancellazione dell’identità. La più terribile, vigliacca forma di suprematismo. Cancellare.

Cancellare i volti, cancellare i tratti. Cancellare per far sparire, per far dimenticare, per annientare. E, soprattutto, cancellare per far paura. E la notizia non fa rumore. È caduta, condivisa da pochi, nel dimenticatoio molto presto. Così come è passata, sottotraccia e sottovoce, la notizia della cittadinanza italiana conferita al primo pubblico ministero donna dell’Afghanistan, Mareya Bashir che, lo scorso agosto, è fuggita dal suo Paese, chiedendo asilo altrove.

Abbiamo dimenticato l’Afghanistan?

Sono queste le donne dell’Afghanistan: donne che fuggono per non abdicare propria identità. In Afghanistan, dallo scorso agosto, vige una serie di divieti: alle donne è vietato frequentare le scuole, è vietato uscire di casa senza un uomo a scortarle, è vietato prendere un taxi, è vietato indossare qualcosa di diverso dal burqa, è vietato mettere lo smalto, è vietato guidare, è vietato parlare ad altri uomini, è vietato farsi scattare foto, è vietato lavorare: alle donne è vietato tutto.

Ora, c’è chi ha scelto di rimanere, perché vessata, perché impossibilitata ad andare altrove, perché magari l’“altrove” le fa ancora più paura di rimanere dove sta. C’è chi è riuscita, invece, ad andarsene, e continua a chiedere che i riflettori vengano puntati sul proprio Paese, C’è chi sta ancora cercando di mettersi in salvo, di respirare senza che un uomo debba darle il permesso, senza che un fanatico religioso le dica chi deve essere, cosa deve dire, chi deve frequentare e come deve vestire. E c’è chi viene ammazzata, come Frozan Safi.

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Frozan Safi. Fonte immagine: nextquotidiano.it

Sono queste le donne dell’Afghanistan, non ce ne sono altre.  Sono quelle vestite di nero, perché i colori “sono sessualmente attraenti”. Sono quelle che fino a qualche mese fa potevano immaginare cosa sarebbero diventate “da grandi”, quelle che non avevano bisogno del padre, del fratello o del marito per fare qualsiasi cosa. Sono quelle come Safi, attivista per luogo di nascita e non per scelta.

Sono quelle che troppo spesso dimentichiamo, quelle che ci stiamo abituando a non vedere più. E quando anche noi non le vedremo davvero più, quando ci saremo accorti che anche a noi scivolerà addosso il loro sguardo e quando anche noi ci saremo abituati a non guardarle più, allora sarà davvero finita. Perché ci saranno riusciti. A farle confondere con il muro, con la strada. A non farle valere niente, a farle diventare esse stesse niente. E allora non servirà più, a loro, sparare, sfregiarle, rapirle, uccidere. Non servirà perché quelle morti non urleranno più giustizia, ma rimarranno nello stesso silenzio della vita.

Edda Guerra

Edda Guerra
Classe 1993, sinestetica alla continua ricerca di Bellezza. Determinata e curiosa femminista, con una perversa adorazione per Oriana Fallaci e Ivan Zaytsev, credo fermamente negli esseri umani. Solitamente sono felice quando sono vicino al mare, quando ho ragione o quando mi parlano di politica, teatro e cinema.

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