Il Presidente americano Donald Trump nuoce gravemente alla scienza e alla natura
Fonte immagine: Il Manifesto.

Con le cure speciali di cui ha goduto per combattere il coronavirus, Donald Trump ha un grande debito nei confronti della scienza e delle sue conquiste. Tuttavia per natura politica il presidente uscente è un negazionista, seguace di quella corrente antistorica e antiscientifica che lo ha portato a disconoscere le conseguenze della pandemia, dell’emergenza climatica, dell’insostenibilità dei ritmi di produzione, consumo e sfruttamento delle risorse. Una natura politica per ciò stesso deviata, e confermata dalla notizia sull’inerzia politica di Trump di fronte alle gravi e già note conseguenze della pandemia. A rivelare che il Tycoon sapesse da mesi della gravità della situazione è stato il Washington Post il 9 settembre scorso. Il National Security Advisor del governo Robert C. O’Brien, infatti, avrebbe allertato Trump dicendogli «sarà la più grave minaccia alla sicurezza nazionale che affronterà da Presidente».

Trump insomma sapeva, tanto da aver confidato al giornalista Bob Woodward che si trattasse di «deadly stuff»: roba che ammazza. Il messaggio del Presidente americano ai suoi cittadini, però, minimizza ancora, nonostante più di 200 mila morti, nonostante anche lui abbia contratto la Covid19. Anzi: sembra che aver superato la malattia possa essere un mezzo per alimentare l’aura mitica di se stesso.

Coronavirus e milizie armate

La gestione inefficiente dell’emergenza pandemica da parte del governo degli Stati Uniti ha inoltre fatto esplodere tensioni sociali che sorgono dalle diseguaglianze e dal razzismo, endemici nella società americana.
Un recente esempio di collegamento tra emergenza sanitaria e tensioni sociali è la scoperta da parte dell’FBI dell’esistenza di un piano per rapire la governatrice democratica del Michigan Gretchen Whitmer, ordito dalla milizia armata Wolverine Watchmen. Nelle idee dei miliziani, la governatrice democratica avrebbe dovuto essere rapita e processata a causa del suo tentativo di imporre un parziale lockdown lo scorso aprile. L’episodio in questione va analizzato alla luce del modo in cui il governo centrale americano ha agito sin dall’inizio della pandemia.

Leggendo le parole della prestigiosa rivista scientifica Nature comprendiamo come al posto di «schierare risorse (…) per contenere il virus con un programma di controllo e contact-tracing, l’amministrazione Trump ha demandato la gestione dell’emergenza sanitaria alle singole città e ai singoli stati, dove la politica e la mancanza di risorse hanno reso impossibile tracciare il virus e informare dettagliatamente i cittadini». La Whitmer probabilmente non aveva alternative alla chiusura totale e per questo ha rischiato di essere rapita. E quando la sua ed altre amministrazioni locali hanno dovuto necessariamente fermare le attività commerciali e scolastiche, Trump ha preferito tuonare critiche dal suo account Twitter.

I danni del negazionismo di Trump

Trattare la pandemia come qualcosa di poco più di un’invenzione riflette in maniera emblematica il rapporto che Trump intrattiene con la scienza e i suoi allarmi sui rischi che oggi corre la natura. La sua vittoria alle elezioni nel 2016 è stata, insieme alla Brexit, il momento che ha convinto gli studiosi di Oxford a eleggere parola dell’anno il termine post-verità, del quale l’Accademia della Crusca propose questa traduzione: «relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali».
La verità scientifica diventa così qualcosa di minaccioso, e questo non ha portato soltanto alla mancata gestione del coronavirus negli Usa.

L’ostilità di Trump nei confronti della scienza nega il nesso tra un sistema economico e produttivo insostenibile e gli sconvolgimenti subiti dalla natura negli ultimi anni. Questa cecità affonda le radici già nella prima campagna elettorale di The Donald e ha avuto risvolti in termini di realpolitik. Nel 2016, infatti, l’outsider del Partito Repubblicano definì il surriscaldamento globale una bufala («hoax»), minacciando il ritiro degli Stati Uniti dal patto sul clima siglato a Parigi nel 2015.

David Victor, dell’Università della California, su Nature ha dichiarato che così facendo Trump ha indotto anche gli altri Paesi ad assumere un atteggiamento superficiale e di rinvio nei confronti dell’emergenza climatica. Chi doveva partecipare agli accordi di Parigi non ha più sentito la pressione o il richiamo all’azione per attivare un concreto processo politico globale in grado di affrontare la sfida più importante del nostro tempo. Giulio Calella su Jacobin Italia ha scritto che quella climatica è la «crisi che contiene tutte le crisi» (pandemia compresa), e gli accordi di Parigi erano forse il primo passo verso soluzioni collettive i cui esiti avrebbero avuto bisogno di tempo per emergere.

Alla politica, però, interessano i provvedimenti di breve termine, e di questo approccio la scienza paga le conseguenze. Lo scorso 24 settembre, ad esempio, il Department of Homeland Security ha proposto una nuova regola per rendere più brevi i periodi di soggiorno negli Stati Uniti per gli studenti stranieri. I nuovi visti erogati avranno una durata di quattro anni, mentre il limite scende a due anni per studenti provenienti da “zone ad alto rischio” come Iraq, Iran, Siria o la Corea del Nord. Oggi la comunità scientifica statunitense teme che questo provvedimento, unito alle altre politiche sull’immigrazione degli ultimi anni, potrebbe avere un grave impatto sul futuro della ricerca americana. Questo provvedimento è uno dei colpi di coda di un Presidente che taglia i fondi all’Organizzazione mondiale della sanità. E che minimizza i devastanti incendi in California dicendo, durante un briefing sul tema, che «presto l’aria si rinfrescherà».

Poche speranze di cambiamento

Il primo mandato di Donald Trump si conclude in piena pandemia e con un’idea di scienza bistrattata dalla diseducazione da post-verità. La più controversa avventura politica statunitense era iniziata con la promessa del Make America Great Again, e Trump era stato votato in massa da quei cittadini che a caro prezzo hanno pagato la crisi economico-finanziaria del 2008. Ida Dominijanni ha definito quel momento «una crisi evolutiva del neoliberismo», e non un episodio in cui il sistema ha mostrato di non essere sostenibile né destinato a durare. Con gli stessi strumenti della caduta, il mondo ha provato a risollevarsi, senza accogliere un’alternativa al capitalismo globale.

Eppure, come ha scritto Wu Ming 1 introducendo Quando qui sarà tornato il mare, un libro sulle conseguenze dell’innalzamento del Mar Adriatico, prima della pandemia stavamo vivendo un periodo di «discesa in campo delle nuove generazioni grazie a movimenti come Fridays For Future ed Extinction Rebellion. Sembrava che finalmente il clima fosse all’ordine del giorno, e poi…Puff!».

Sebbene fino a un anno fa ci fosse un maggiore interesse dell’opinione pubblica sulla questione ambientale, il capitalismo globale minaccia di risorgere ancora più forte grazie alla pandemia. La quantità di plastica e mascherine usa e getta prodotti e consumati in tutto il mondo ha già un impatto devastante sugli ecosistemi, oleando un meccanismo che qualcuno immaginava in procinto di crollare.

Vedere in Trump l’unico responsabile della crisi climatica è però fuorviante, perché equivarrebbe ad attribuirgli le colpe di un intero sistema. Se infatti Trump rappresenta «la logica estensione degli orientamenti politici ed economici più pericolosi dell’ultimo mezzo secolo», come dice Naomi Klein in Shock politics, dobbiamo anche stare attenti a immaginare Joe Biden come l’alternativa per il cambiamento. Perché Biden è molto più legato di Trump a quegli orientamenti politici di cui parla Klein. Ciò significa che, anche a fronte di una vittoria dei democratici il prossimo 3 novembre, alcuni dei danni prodotti da Trump potrebbero non trovare riparazione.

Giovanni Esperti

2 Commenti

  1. Interessante il lungo articolo di Giovanni x la seria documentazione e la chiarezza espositiva. Abbiamo bisogno di giovani giornalisti che si dedichino a dare notizie anche alternative, di ciò che avviene lontano da noi, ma di vitale importanza x gli equilibri del nostro mondo. Auguri, Giovanni!!! Luciana e Paolo

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