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Conte all'ex Ilva di Taranto con gli operai. Fonte: il Sussidiario

Lavoro o salute? È questo l’amletico dilemma che va avanti ormai da un anno, cioè dal 1° novembre 2018, giorno in cui Ilva SpA è passata ad ArcelorMittal, ritenuta essere l’unica società che potesse fare gli investimenti necessari per mettere in sicurezza l’impianto di Taranto e mantenere, allo stesso tempo, la piena occupazione lavorativa.

Ricordiamo perfettamente l’entusiasmo dell’ex ministro per il Sud Claudio De Vincenti, il quale giudicava l’offerta del gruppo indiano «ottima sotto il profilo del piano ambientale, del piano industriale, della robustezza della finanziaria». Anche Carlo Calenda, che fu l’artefice del primo dei due accordi raggiunti con ArcelorMittal, si espresse più che favorevolmente verso il gruppo indiano sostenendo che «era la migliore offerta secondo i parametri di gara» e che «nessun lavoratore sarebbe stato licenziato».

L’ ex Ilva occupa al momento la rilevante somma di 10.700 posti di lavoro – di cui 8.200 solo a Taranto – con una produzione annua di acciaio che si attesta intorno alle 6 milioni di tonnellate. Un’eventuale chiusura dell’impianto sarebbe quindi non solo una bomba sociale per tutti i lavoratori che perderebbero il posto di lavoro, ma anche una catastrofe economica poiché negli ultimi sette anni – dal sequestro del 26 luglio 2012 alla recentissima lettera di recesso di ArcelorMittal – è andato in fumo l’1,35% del PIL nazionale, cioè circa 24 miliardi di euro (3-4 miliardi di euro all’anno) secondo l’analisi Svimez. Tali perdite non riguardano solamente il Mezzogiorno d’Italia, ma riguardano, indirettamente, anche il Nord Italia – come principale fornitore della componentistica e della meccanica dell’ex Ilva – per circa 7,3 miliardi di euro. 

Ecco perché è assolutamente corretto affermare che la questione Ilva riguarda il destino dell’Italia.

Come si è arrivati all’attuale punto di rottura?

Il 6 settembre 2018 è il giorno in cui si è giunti all’accordo tra i sindacati italiani e ArcelorMittal con la partecipazione dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, che descrisse l’accordo come «il migliore possibile nelle peggiori condizioni possibili». Nella fattispecie furono assicurate 10.700 occupazioni su un totale di 13.800 lavoratori (i restanti 3.000 esuberi sarebbero stati reintegrati entro il 2023) e il tetto minimo garantito di produzione di acciaio si sarebbe attestato sulle 6 milioni di tonnellate annue.

Settembre 2018, quando Di Maio annunciava su Fb: “Abbiamo risolto crisi Ilva in 3 mesi”
Fonte: La Repubblica

Alle elezioni del 4 marzo 2018 il M5S prese il 47% dei voti a Taranto promettendo la bonifica e la chiusura dello stabilimento: proprio per tale motivo l’accordo del 6 settembre è stato mal digerito dall’elettorato grillino che si è sentito tradito dalle promesse di Di Maio fatte in campagna elettorale. Il governo M5S-Lega, quindi, cercò di recuperare terreno eliminando l’immunità penale con il Decreto Crescita, ma poi fece dietrofront reintroducendo la clausola ad agosto con il Decreto Salva-Imprese, poiché Di Maio sapeva benissimo che ArcelorMittal non avrebbe mai concluso alcun accordo senza tale garanzia; infatti il 30 luglio 2018 Di Maio era seduto al tavolo con i rappresentanti del colosso siderurgico quando fu loro chiesto: «ArcelorMittal prenderebbe l’Ilva senza immunità penale?». La risposta secca e diretta di Geert Van Poelvoorde, dirigente di Arcelor Mittal, fu questa: «Pensate che io sia in grado di convincere il nostro management e i nostri ricercatori a venire qui e a dare una mano all’Ilva quando qualcuno dal primo giorno gli dice “attenti perché appena arrivati in Italia vi mettiamo in galera?”»

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Di Maio di fronte ai dirigenti di ArcelorMittal il 30 luglio 2018.
Fonte: Peacelink

Occorre precisare che lo scudo penale di cui tanto si parla non è presente all’interno del contratto, ma è presente all’interno del vergognoso decreto n.1 del 2015 – varato dall’allora premier Matteo Renzi – il quale all’art. 2 comma sesto recita: «Le condotte poste in essere in attuazione del Piano (ambientale), di cui al periodo precedente, non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questo funzionalmente delegati». Come è facilmente deducibile l’obiettivo era quello di tutelare i commissari – visto che l’impianto era in amministrazione straordinaria a causa del sequestro giudiziario del 2012 – e i futuri acquirenti dall’attuazione del Piano ambientale del 2017 che li avrebbe potuti coinvolgere in guai giudiziari per responsabilità derivanti da problemi di più vecchia origine.

È proprio la modifica di questo articolo – avvenuta con l’approvazione del Decreto Legge Imprese passato alla Camera il 30 ottobre 2019 – che ha fatto vacillare, nuovamente, l’acquisizione di Ilva SpA da parte di ArcelorMittal, che ha colto la palla al balzo per impugnare il contratto che prevede la possibilità di recedere “qualora sopraggiungano modifiche normative rilevanti ai fini della conclusione dello stesso”. 

La modifica dell’immunità penale agli amministratore dell’ex Ilva SpA è, per l’appunto, un caso normativo rilevante.

Il Governo, così facendo, ha di fatto legittimato il comportamento del colosso siderurgico che, in un periodo di crisi della produzione d’acciaio in Europa, si ritrova ad avere anche il coltello dalla parte del manico: può recedere dal contratto così da diminuire i propri costi di produzione o può contrattare con il Governo un accordo più vantaggioso.

ArcelorMittal dichiara di voler lasciare

Fonte: Tgcom24

Ormai gli aggiornamenti sulla vicenda si susseguono in maniera rapidissima: secondo le ultime notizie ArcelorMittal lascerebbe l’impianto il 3 dicembre 2019 a prescindere dal fatto che lo scudo penale venga o meno reintrodotto; Luigi Di Maio ed il premier Giuseppe Conte sembrano non voler mollare la presa: è stato infatti lo stesso ministro degli Esteri a dichiarare di voler mantenere ArcelorMittal a Taranto, “costi quel che costi”. Proprio in tal senso il Governo sarebbe disposto a contrattare un ridimensionamento dell’impianto pur di mantenere attiva parte della produzione.

La verità è che lo scudo penale è uno specchietto per le allodole, i veri problemi sono altri e sono tutt’altro che facilmente risolvibili: «ArcelorMittal non sarebbe in grado di garantire le 6 milioni di tonnellate annue di produzione a causa della riduzione di richiesta di acciaio, inoltre il rischio sanitario che ne deriva è stato dichiarato “inaccettabile” dalla commissione VIIAS anche alle attuali 4,7 milioni di tonnellate annue. In aggiunta, ArcelorMittal – come contenuto al rigo dodici della comunicazione di recesso dal contratto di affitto dell’Ilva – non è in grado di rispettare l’ultimatum della magistratura circa la messa a norma dell’altoforno numero 2, e fa notare che anche gli altri due altiforni non adottano le tecnologie consone a garantire la sicurezza per i lavoratori. Ilva ha impianti pericolosi che richiederebbero investimenti mai fatti e che – date le ingenti perdite economiche dell’azienda – non verranno mai fatti», scrive Peacelink.

Ha senso continuare a supplicare ArcelorMittal nonostante abbia dimostrato non essere in grado di rispettare il piano d’investimento dopo appena dodici mesi? Siamo davvero sicuri che il colosso multinazionale non abbia acquisito l’ex Ilva per altri motivi, come ad esempio evitare concorrenza all’interno di quel mercato? Possibile che il Governo italiano non abbia un piano B a quella che si prospetta essere una catastrofe sociale ed economica per il Paese?

Per chiarire alcuni dubbi abbiamo interpellato direttamente Alessandro Marescotti presidente di Peacelink, un’associazione di volontariato nata su rete telematica che promuove dal 1991 la cultura della solidarietà e dei diritti umani, l’educazione alla pace, la cooperazione internazionale, il ripudio del razzismo e della mafia, la difesa dell’ambiente e della legalità. Peacelink è una delle fonti d’informazione più autorevole e accreditata riguardo il caso ex Ilva.

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Alessandro Marescotti – presidente di Peacelink
Fonte: Corriere del Mezzogiorno

Visto il recente comunicato di recesso dal contratto di ArcelorMittal, quale sarà secondo Lei il futuro dell’ex Ilva?

«Il Governo non vede l’ora di sbarazzarsi dell’Ilva e di un problema che non ha saputo risolvere in tutti questi anni. Questo è un tentativo di deresponsabilizzarsi e di liberarsi del problema Taranto. Purtroppo è così. È come gettare dalla rupe una bambino malformato invece di prendersene cura. Il futuro dell’Ilva non esiste più. E i partiti invece di far parte della soluzione fanno parte del problema.»

ArcelorMittal appena un anno fa prometteva piena occupazione e investimenti per la riconversione dell’impianto. Secondo Lei ha mai avuto intenzione di investire davvero nell’ex Ilva?

«Non credo. Ci hanno creduto i partiti che si volevano sbarazzare di Taranto e dei suoi problemi affidando ad una multinazionale straniera quella che definivano un’industria strategica nazionale. Che ipocrisia. Mittal ha cercato di capire se Taranto poteva decollare e aumentare la produzione. Poi quando ha visto che un operaio è morto in mare cadendo dalla gru fatiscente ha deciso il dietrofront. Da quel momento, a luglio del 2019, è stato posto sotto sequestro lo sporgente di scarico delle navi che portano le materie prime. Dopo di che, secondo me, Mittal ha detto: andiamo via da Taranto.»

La discussione tra Governo e opposizione sembra appiattirsi su un unico argomento: lo scudo penale. Non Le pare che si vadano a tralasciare temi che nella questione ex Ilva hanno un ruolo di fondamentale importanza? Ad esempio, sembra che la questione ambientale sia totalmente uscita fuori dal dibattito politico.

«È triste ma è così. Cedendo sullo scudo penale si va verso il medioevo. Ma l’industria non risorge tornando indietro. La questione ambientale è la questione fondamentale a Taranto, dove è in corso, è bene ricordarlo, un processo per disastro ambientale che vede l’Ilva e le sue vecchie tecnologie sotto accusa.»

In tal senso vorrei che si sottolineasse l’impatto ambientale che l’ex Ilva ha prodotto sull’ecosistema e sulla vita dei cittadini di Taranto. Cosa vorrebbe dire mantenere l’impianto aperto alle condizioni attuali?

«Per venti chilometri dai camini dell’Ilva è vietato il pascolo libero sulle aree incolte. La contaminazione dei terreni per via della diossina ha paralizzato il territorio. Ma ha danneggiato anche la coltivazione delle cozze: il fondale di un’area importante del mar Piccolo di Taranto è contaminato. I cittadini devono prendere delle precauzioni quando il vento soffia dall’Ilva verso la città. I bambini che vivono vicino all’Ilva hanno un quoziente di intelligenza più basso. Più ci si allontana dal polo industriale più aumenta la speranza di vita. I tumori infantili a Taranto sono superiori del 54% rispetto al resto della regione. Tenere aperto un impianto inquinante mentre la gente fugge via è una pura follia, sembra un’esercitazione di sadismo. Il sadismo della politica. Mentre la politica dovrebbe incarnare il sogno delle persone e diventare la progettazione concreta di una speranza, di una volontà generale.»

Nicolò Di Luccio

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