Kvennafri
Fonte: Claudio Schwarz, Unsplash

Il 1975 costituisce un punto di partenza per l’economia femminile in Islanda. Il 24 Ottobre migliaia di donne scesero in piazza in occasione del Kvennafri per protestare contro il gender pay gap, ossia la disparità di retribuzione salariale tra uomo e donna, lasciando vacanti numerose postazioni di lavoro. Ancora oggi, secondo il report sul divario di genere redatto ogni anno dal World Economic Forum, il divario in alcune professioni sarebbe a circa il 21%, nonostante l’emanazione nel 2017 di una legge che impone alle aziende di certificare la l’uguaglianza salariale a parità di mansioni. A distanza di 48 anni, donne e persone non binarie sono scese in piazza per protestare ancora una volta contro il gender pay gap.

Durante questo sciopero che prende il nome di “kvennafri” ossia giorno libero delle donne, avviene la storica astensione dal lavoro: le insegnanti non fanno lezione, le postine non consegnano la posta, le impiegate non si recano in ufficio, le casalinghe non fanno la spesa e nemmeno il bucato. Furono proprio le casalinghe, nel 1975, forse spinte da un forte senso di cura verso i propri compagni, a mettere in atto una serie di azioni volte ad agevolare loro la giornata affinché tutto procedesse correttamente. «‘Assicuriamoci che tutto funzioni bene’ è la mentalità in cui siamo bloccati e da cui dobbiamo uscire» ha detto Freyja Steingrímsdóttir, tra le organizzatrici dello sciopero e portavoce del BSRB, il più grande sindacato dei lavoratori pubblici. Lo slogan dello sciopero – a cui anche la premier Katrín Jakobsdóttir ha preso parte – difatti recita: Kallarðu þetta jafnrétti? (Tu questa la chiami parità?).

«On October 24, 1975, 90% of the women in Iceland staged a strike for equal rights and pay. They ceased working, cooking, cleaning, and tending to their children, effectively bringing the nation to a standstill. The men faced significant challenges. Supermarkets quickly sold out of sausages due to their ease of preparation. Fathers resorted to bribing their older children to care for the younger ones, while some were compelled to bring their children to work, resulting in reduced productivity. (…) One year later, Iceland enacted the world’s first law guaranteeing equal rights for women. Four years following this legislation, Iceland made history by electing its first female president, Vigdís Finnbogadóttir. (…) According to the World Economic Forum, Iceland currently holds the top rank globally for gender equality, a position it has maintained for the past 11 years».

Si tratta quindi di uno sciopero che unisce il lavoro retribuito ma anche quello non economicamente retribuito come nel caso del lavoro domestico e di cura familiare. In particolare, le organizzatrici denunciano quest’ultima tipologia di lavoro non comparabile economicamente ad altri settori. Nonostante quindi l’Islanda sia da tempo proiettata verso il futuro, sotto alcuni aspetti rimane ancora un paese in cui le donne subiscono gli effetti negativi di una cultura maschilista e patriarcale. Al centro del dibattito c’è, quindi, la richiesta di un’emancipazione sociale, culturale, ma anche economica.

«Le donne che parlano di soldi sono considerate materiali o volgari, invece dovremmo parlarne e contrattare stipendi e aumenti. (…) A causa della distribuzione patriarcale del lavoro, assistiamo a un gender gap sia verticale (impedisce di raggiungere posizioni apicali che sono anche più retribuite) sia orizzontale (relega la donna in alcune tipologie di lavoro)» – dichiara Azzurra Rinaldi, economista femminista, direttrice della School of Gender Economics all’Università di Roma. Un gender gap che parte dall’educazione e si sviluppa nei processi formativi attraverso stereotipi che si riflettono sulle scelte lavorative: ad esempio, la presenza femminile all’interno dei corsi di laurea STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics) è nettamente inferiore ai ragazzi che raramente intraprendono strade che conducono a lavori assistenziali, come Scienze della formazione. La carriera lavorativa, e dunque l’aspetto salariale, appaiono quindi osteggiati da discriminazioni di genere e pay gap che talvolta impediscono alle donne di sognare “in grande”, di porsi obiettivi che si discostano dalla realtà.

Per il World Economic Forum, ai ritmi attuali ci vorranno 257 anni perché la disparità retributiva venga colmata, ed è per questo che l’Islanda ha deciso di dare voce ai bisogni di una collettività ancora succube del passato, di avviarsi veso un cambiamento pacifico ma significativo. Affinché nascere donna non costituisca un ostacolo, lunga vita al kvennafri.

Aurora Molinari

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