Erdogan l'inaffondabile: il presidente turco tiene e va al ballottaggio
Fonte immagine: Wikimedia Commons

Chi credeva che le elezioni in Turchia si decidessero al primo turno è rimasto ampiamente deluso. Erdogan non affonda, arriva primo, e porta il suo sfidante – favorito fino a qualche giorno prima – al ballottaggio. Alle elezioni del 14 maggio, l’attuale capo dello stato e il suo partito (AKP) hanno dimostrato, ancora una volta, di essere il punto di riferimento della politica turca. L’opposizione, data per vincente, non sfonda e riesce solamente ad evitare che Erdogan superasse il 50%. Kemal Kilicdaroglu, il suo sfidante, si ferma al 44,4% (contro il 49,5% del presidente) e spera nel ribaltone, il quale sarebbe potuto arrivare se Sinan Ogan, il candidato ultranazionalista che ha raccolto il 5,2% dei suffragi, lo avesse appoggiato al secondo turno. Così non è stato, dato che il terzo classificato ha preferito virare verso Erdogan, con il quale ha più punti in comune.

Dal punto di vista parlamentare, il partito del presidente e il suo alleato, il Partito del movimento nazionalista (MHP), hanno conquistato 322 seggi (su 600), seguono quello di Kilicdaroglu e la sua coalizione con 213 seggi e il blocco di sinistra guidato dal Partito della Sinistra Verde con 65.

In sostanza, salvo colpi di scena, i quali sono sempre possibili in politica, Recep Tayyip Erdogan potrà continuare a guidare la Turchia nel centesimo anno dalla fondazione della Repubblica. Un traguardo importante, il cui valore simbolico acquista decisamente un altro spessore, considerando che, in caso di vittoria, il leader dell’AKP inaugurerà il suo terzo decennio al potere, un risultato senza precedenti.

La grande illusione

Hanno sbagliato tutti. Il primo verdetto, a prescindere da come finirà, non può che essere questo. È un fatto. Qualche giorno prima del voto, i sondaggi, anche i più rispettabili, davano Kilicdaroglu intorno al 48% a circa cinque punti di distanza dal suo avversario. Appare chiaro che in molti hanno sottovalutato le abilità politiche di Erdogan e la sua capacità di leggere e controllare la società turca. D’altro canto, è altresì evidente che l’opposizione non sia stata capace di affermarsi, di sfruttare le contraddizioni di un leader che nelle ultime settimane si è dovuto confrontare con diverse situazioni che lo avrebbero dovuto fiaccare – e su cui fronte anti-Erdogan avrebbe dovuto colpire con maggiore decisione: dall’inflazione a livelli record alla pessima gestione dell’emergenza causata dal terremoto dello scorso 6 febbraio.

Inoltre, per provare a spodestare il “sultano”, Kilicdaroglu ha messo insieme sei partiti che vanno dai nazionalisti di destra, ai laici e agli islamisti, con un appoggio della sinistra turca. Un crogiolo di forze che hanno una visione del Paese totalmente diversa l’una dall’altra e di cui tanti dubitano possa essere capace di gestire la Turchia e portarla fuori dalla crisi economica. Un’impresa ardua, tanto a livello politico quanto a livello elettorale, soprattutto se si considera che dall’altro lato della barricata si trovava la “macchina perfetta” di AKP, partito di governo, il quale da tempo tesseva la sua ragnatela elettorale con promesse e provvedimenti ad hoc. A partire dallo scorso dicembre, e fino a cinque giorni prima del voto, Erdogan ha lavorato solo e soltanto per la sua rielezione con tutti i mezzi in sui possesso: dall’aumento del 45% lo stipendio dei dipendenti pubblici al taglio del debito per gli studenti e all’aumento delle pensioni. È bastata la sola promessa di ricostruire le province distrutte dal terremoto per convincere una popolazione delusa a recarsi alle urne per votare l’AKP. Un’azione che ha suscitato la rabbia dell’opposizione sui social network.

È evidente che qualcosa non abbia funzionato per il fronte anti-Erdogan, ma dando una rapida occhiata alla geografia elettorale balza subito all’occhio anche la polarizzazione di un Paese dove il sistema di potere creato da vent’anni di Erdogan non pare scalfirsi. Istanbul, Ankara e la costa sono andate a Kilicdaroglu, l’Anatolia profonda a Erdogan. Ma a Kilicdaroglu è andato anche il sudest curdo, che mai fino ad ora aveva votato per il partito che fu di Mustafa Kemal.

La mappa del voto del primo turno delle presidenziali della Turchia (Cumhuriyet.com.tr)

Scalfire un sistema di potere – basato su una fitta rete di relazioni clientelari e favoritismi vari – ben radicato all’interno delle istituzioni è complicato, soprattutto quando questo controlla anche tutte le reti di informazione. In Turchia i media sono di fatto totalmente nelle mani di Erdogan e del suo partito. Il suo sfidante è apparso a malapena sull’emittente di Stato TRT, mentre i discorsi del presidente venivano trasmessi integralmente. Un’analisi dello spazio televisivo concesso ai candidati in televisione, ha rilevato che soltanto ad aprile, Kilicdaroglu è apparso soltanto in 32 minuti di trasmissione, al contrario di Erdogan che ha superato le 32 ore.

Anche la scelta dei temi da dibattere ha pesato. Il presidente ha puntato molto sulla politica estera, portando il Paese al centro della scena politica mediterranea, riprendendo il dialogo con i suoi vicini – eccetto la Grecia – e non ha mai nascosto le sue simpatie per Putin, il quale, in effetti, ha fatto la sua parte, garantendo ad Erdogan una proroga del pagamento della fornitura di gas e il trasferimento di milioni di dollari alla Banca centrale turca nei mesi che hanno preceduto le elezioni. Hanno fatto lo stesso anche l’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti. Il nazionalismo, poi, si sa, ha una forte presa sugli elettori di un ex impero e ha contribuito, nel corso del tempo, a costruire un’identità politica della Turchia chiara e identificabile. Al contrario, il progetto del fronte anti-Erdogan di Kilicdaroglu, alla cui base c’era anche l’accusa di corruzione, clientelismo e di inefficienza del sistema economico messo in piedi dall’avversario, non è stato così chiaro e percepibile come si credeva.

Kilicdaroglu cambia strategia

Dipinto come un candidato moderato, umile e modesto, che faceva le dirette sui social da una cucina frugale e popolare, negli ultimi giorni la figura di Kilicdaroglu è totalmente cambiata. Anzi, è cambiato il suo modo di comunicare.

Innanzitutto è cambiato il suo atteggiamento nei confronti del suo avversario. Gli attacchi diretti hanno sostituito la narrazione precisa ma troppo metodica degli errori compiuti da Erdogan nel corso degli anni. Mentre tutti si aspettavano che riconoscesse la sconfitta, con i primi dati che davano il presidente al 56%, il leader di CHP ha rincarato la dose e non si è perso d’animo, intervenendo a gamba tesa a scrutinio in corso e affermando che i suoi dati dicevano ben altro. Un’iniezione di fiducia che in parte lo ha ripagato, visto che la partita si deciderà al ballottaggio.

Ma il cambio di passo si vede anche nel cambio del suo staff elettorale. Ben comprendendo che lo scontro all’ultimo scrutinio si giocherà su un terreno scivoloso, cioè su chi avrà più “verve comunicativa“, Kilicdaroglu ha licenziato il suo consigliere elettorale preferendo dare le chiavi del suo destino in mano al “team di Istanbul“, cioè ai responsabili del successo delle amministrative del Bosforo del 2019.

Kilicdaroglu ha poi deciso di riconoscere un ruolo più centrale a chi di comunicazione se ne intende e che ha già sconfitto il partito del suo avversario, cioè Ekrem Imamoglu, candidato alla vicepresidenza. Infatti, è innegabile che quella del sindaco di Istanbul sia una figura dal riconosciuto spessore politico e fortemente carismatica. All’inizio, si credeva che sarebbe stato lui il prescelto a guidare il fronte anti-Erdogan, ma alla fine il CHP e gli altri partiti hanno preferito virare su Kilicdaroglu per motivi di equilibrio politico.

Inoltre, dagli ultimi suoi interventi è possibile notare una decisa virata nazionalista. Se si considerano sue ultime dichiarazioni è apparso chiaro come il leader dell’opposizione abbia deciso di allargare il suo consenso in favore del fronte anti-siriano, anche se non è chiaro a chi si riferisse la sua esternazione: «Se vado al potere rimpatrierò tutti i migranti. Punto». Stando alle sue affermazioni, i migranti irregolari in Turchia sarebbero 10 milioni, nonostante gli esperti ci tengano a chiarire che si tratti di un numero molto più basso. Trattandosi di una strategia elettorale, però, è indubbio che Kilicdaroglu abbia volutamente esagerato i numeri.

Inoltre, il nuovo staff punta molto sulla voglia di cambiamento. Kilicdaroglu è sicuro di riuscire a imprimere una svolta decisa alla sua campagna elettorale in pochi giorni, riportando tra i turchi la “gioia di vivere”, espressione da lui usata e ripetuta in più di un’occasione negli ultimi giorni. Al metodico studio degli errori compiuti dal presidente si è sostituita una leadership che fa leva sulla chiara volontà di rappresentare un’alternativa credibile e nuova. Il burocrate tutto d’un pezzo ha lasciato spazio ad un leader entusiasta e deciso.

Appare esplicita l’intenzione di circondarsi di personaggi noti a tutto il pubblico turco, e soprattutto vincenti – vincenti proprio come il suo avversario – e di veicolare la loro voce attraverso la sua, spingendo sul sostegno popolare e sfruttandone la visibilità di cui godono per aumentare quell’entusiasmo che al primo turno è mancato. Tutto questo, per tentare di battere l’inaffondabile Erdogan. Il successo, e ciò vale per ogni elezione, dipenderà quasi certamente da quanto questa mobilitazione in extremis si rivelerà efficace. Un “terno al lotto” da cui non dipendono soltanto le elezioni ma anche il futuro dell’intero Paese, del Mediterraneo e di tutto il Medio Oriente.

Donatello D’Andrea

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