Il "metodo Meloni": comunicare tanto, comunicare tutto
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Come di consueto, ogni governo, una volta insediato, adotta una strategia per comunicare i propri provvedimenti, far trasparire le proprie opinioni e, di solito, per saggiare il gradimento elettorale circa una futura azione da intraprendere. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni non fa eccezione, anzi. Per chi, come l’attuale capo del governo, ha fatto della comunicazione politica la propria arma per scalare i vertici del potere italiano, il modo attraverso cui rapportarsi con i propri elettori e, ovviamente, con il resto dell’opinione pubblica, ha assunto un’importanza strategica fondamentale. Il governo Meloni comunica tanto e soprattutto comunica tutto, come si può ben intuire dal caso dell’ormai celeberrimo video del primo maggio.

Dallo scorso ottobre, cioè dal mese in cui il governo Meloni si è insediato, sono state diverse le testimonianze di questo nuovo stile comunicativo adottato dal Presidente e dai suoi collaboratori. Una commistione di elementi vecchi e nuovi, alcuni dei quali hanno garantito alla leader di FdI il successo alle Politiche del 25 settembre, e altri invece dettati dalle circostanze. Ad esempio, quando Giorgia Meloni è stata costretta ad interfacciarsi con gli altri leader europei, con l’Unione Europea e con i punti fermi dell’Italia in politica estera (l’alleanza con gli Stati Uniti, la questione Nato, il sostegno all’Ucraina), ha dovuto per forza di cose intraprendere una “coraggiosa” ma necessaria “svolta moderata“, abbassando i toni e adottando un linguaggio più istituzionale. Tuttavia, in alcuni casi le abitudini sono “dure a morire” e chiariscono come ad una Meloni di governo ce ne sarà sempre una “di lotta”.

La comunicazione politica è figlia di diversi elementi, molti dei quali si basano soprattutto sulla storia del personaggio che la adotta e sulle capacità di un politico di adattarsi al contesto in cui si trova. Dai banchi dell’opposizione a Palazzo Chigi, in effetti, le cose cambiano, e taluni atteggiamenti adottati nel primo caso non sono più funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi quando si arriva al governo del Paese.

Il passaggio dall’opposizione a Palazzo Chigi

Nonostante la crescita del consenso del partito di Giorgia Meloni sia iniziata ben prima della decisione di smarcarsi dal resto del centrodestra nel sostegno al governo di Mario Draghi, il vero exploit è riconducibile a quel preciso momento, da quando, cioè, Fratelli d’Italia ha deciso di essere l’unico partito di opposizione. In questa posizione, l’attuale capo del governo ha potuto più o meno avversare in solitudine, e con una certa efficacia, ogni decisione assunta dall’ex banchiere senza il pericolo che un altro partito potesse rubargli la scena. D’altronde il gioco del dissenso in Italia è uno sport consolidato, nonché una sorta di “tradizione politica”. Quando ci si trova all’opposizione non ci vuole molto impegno per aumentare il proprio consenso, basta infatti gridare a tutto il mondo che le cose non funzionano e che non sono quelli “i problemi degli italiani”. Nonostante ciò, in un momento in cui Sergio Mattarella, il capo dello stato, aveva dato un aut-aut alla politica italiana – “con Draghi o alle urne” – quella di Meloni è stata una scelta intelligente soprattutto in ottica futura.

La campagna elettorale, per quanto breve, ha comunque ribadito come il centrodestra non avesse degli avversari credibili e pronti a contendergli il primato. Il Partito Democratico si è sciolto come neve al Sole, mentre il Movimento di Giuseppe Conte ha preferito logorare il partito di Enrico Letta, i cui elettori erano molto più influenzabili rispetto a quelli di destra. Nonostante i proclami di Renzi e Calenda, invece, il Terzo Polo non ha rappresentato un fattore di seduzione importante per gli elettori moderati e liberali aderenti alla formazione di Silvio Berlusconi, la parte più in difficoltà della coalizione vincente. L’ingresso a Palazzo Chigi era dunque praticamente già scritto, e la vittoria di Giorgia Meloni era nell’aria ben prima di quanto si potesse pensare.

Durante le settimane concitate che hanno preceduto il voto, i toni assunti dalla leader di FdI sono quindi, in un certo senso, mutati. Meloni era consapevole del fatto che la sua ascesa a Palazzo Chigi sarebbe stata guardata con sospetto dalle altre cancellerie europee – e dagli americani – in quanto la sua figura e il suo partito apparivano come tutt’altro che moderati. Per questo motivo, ha deciso di cambiare quasi radicalmente la sua comunicazione politica in favore di argomentazioni, almeno per quanto concerne la politica estera, meno radicali e maggiormente aderenti alla posizione internazionale dell’Italia. Niente più attacchi all’Unione Europea, ma una proposta di collaborazione aperta. Insomma, una svolta dettata da necessità e convenienza, avente il fine di migliorare la sua reputazione e accreditarsi presso i governi alleati, rilasciando dichiarazioni di amicizia e ponendo la mano per le successive collaborazioni. In parte ci è riuscita, ma in parte no come dimostrano i recenti attacchi del dimissionario primo ministro spagnolo e degli esponenti del governo francese.

Una volta entrata nella stanza dei bottoni, il governo Meloni ha dovuto affrontare una serie di crisi comunicative – dalle accise al PNRR, da Cutro all’eccesso di protagonismo dei suoi alleati – che non sempre sono state gestite nel migliore dei modi. Molti retroscena hanno parlato di numerose difficoltà del capo del governo nel tenere a bada i suoi esponenti più illustri – come Salvini, Berlusconi, La Russa e Lollobrigida – i quali con dichiarazioni “fuori dagli schemi” hanno provocato alcuni sommovimenti mediatici che hanno messo in luce come manchi, all’interno dell’esecutivo, una struttura comunicativa completa. A tre mesi dalla nascita, ad esempio, a Palazzo Chigi restava indefinito il ruolo del portavoce di Meloni e del responsabile dell’ufficio stampa. La stampa estera lamentava l’assenza di una voce unica che sintetizzasse le varie voci all’interno del governo. Soltanto qualche settimana dopo – cioè all’inizio di marzo – alcuni punti sono stati chiariti.

Il rapporto con l’esterno è sempre difficile da gestire per un governo. Quello con i giornalisti è sempre un confronto delicato, che va sicuramente curato ma anche regolato, per evitare incidenti. Mario Draghi ha iniziato “comunicando il silenzio” e parlando il meno possibile per poi abbandonarsi a conferenze stampa preparate e confezionate, intuendo il suo ascendente positivo sulla stampa. Giuseppe Conte ha puntato sul rapporto emotivo e diretto con gli italiani, non sempre mediato dalla carta stampata. Giorgia Meloni ha invece sperimentato le conferenze stampe, come a Cutro, comprendendo la sua difficoltà a dialogare con i media in modo diretto e virando su una soluzione diversa, delegando la sua voce ai social, cioè agli stessi strumenti che l’hanno portata a Palazzo Chigi.

Comunicare tanto, comunicare tutto

Il governo Meloni ha scelto un modo tutto suo di gestire la comunicazione politica. Il video del primo maggio suddetto è forse il più chiaro e fulgido esempio di come il presidente intenda dialogare con gli italiani, trasformando un rapporto tradizionalmente mediato dalla stampa in qualcosa di più diretto e disintermediato. Ciò, però, non deve portare a pensare che dietro a questa soluzione non ci sia una strategia o un team. Al contrario, nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione. D’altronde proprio questo tipo di comunicazione è stata capace di catapultare un partito dal 4% al 30%.

Quella di Giorgia Meloni è davvero una comunicazione totale. Il modo di rivendicare i propri risultati – qualsiasi essi siano, se reali o presunti – è totale, ma viene presentato con toni affabili e amichevoli, come se in quel momento non sia il capo del governo a parlare ma una persona comune impegnata in una missione per conto degli italiani. Non è di certo la prima volta che un politico si presenta sotto queste vesti, ma è la prima in assoluto che ogni minimo dettaglio viene presentato a favor di telecamera. Il video in questione, che riprende il capo del governo che si sta recando nella sala del consiglio per discutere di un provvedimento dedicato ai lavoratori nel giorno della festa, è presentato “a mo’ di dietro le quinte” e sfrutta al massimo la causale dell’opportunità politica, portandola alle estreme conseguenze.

Rivendicare i propri risultati rafforzando costantemente il proprio storytelling, è una parte fondamentale dell’attività politica perché garantisce una rendita spendibile in ogni contesto, non solo quello elettorale. E Meloni lo fa, in modo diretto, senza alcuna mediazione e senza “censure”. Anche la creazione di un “format” per dialogare con gli elettori risponde a questo metodo: niente giornalisti e rapporto diretto con gli italiani. Si tratta degli “appunti di Giorgia”, in cui il capo del governo discute dei provvedimenti da adottare e di quelli già adottati dall’esecutivo, giustificandoli ed enfatizzandoli. Una soluzione a costo zero per evitare le domande e trasmettere i propri “frame” – cioè la propria visione del mondo – all’elettorato.

Il metodo adottato dal governo Meloni rappresenta sicuramente una soluzione efficace e in grado di garantire un buona rendita comunicativa ma è anche vero che talune strategie di comunicazione politica, soprattutto se “totale”, possano nascondere delle insidie. Affinché esse funzionino c’è bisogno di risultati reali e tangibili da rivendicare nei confronti dell’elettorato. Esistono ben poche strategie comunicative in grado di mitigare questo aspetto e di sopperire alla realtà, in quanto, anche la comunicazione politica ha bisogno di solide basi per reggersi e non saturarsi.

Donatello D’Andrea

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