Decolonizzare il linguaggio: la guida di Survival dedicata alla conservazione
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Quando si parla di decolonizzazione non ci si riferisce solo al processo che ha portato all’indipedenza nazionale dei Paesi africani e asiatici, segnando la fine “ufficiale” del colonialismo occidentale – che può essere considerato concluso solamente a livello formale. Il termine neocolonialismo si è diffuso nel secondo dopoguerra proprio per indicare il continuo sfruttamento delle risorse presenti nel continente africano da parte degli Stati occidentali (le ex potenze coloniali che non ne vogliono sapere di perdere il loro controllo economico sui territori che un tempo rientravano nel loro dominio) e di nuovi attori come la Cina che con i loro finanziamenti (guidati da interessi di natura economica) sono riusciti a imporsi in diversi territori africani. Con il termine colonialismo si intende un progetto politico ed economico, collegato a una visione basata su stereotipi razzisti. Per questo motivo la decolonizzazione deve riguardare anche la sfera ideologica e culturale.

Tale tema è stato affrontato da diversi attivisti, scrittori e politici di origine africana. Nel 1986 l’autore keniota Ngugi wa Thiong’o (uno dei massimi esponenti della letteratura africana) ha pubblicato la raccolta di saggi “Decolonizzare la mente: la politica della lingua nella letteratura africana” nella quale sostiene la necessità di decolonizzare il linguaggio, dando un contributo importante al dibattitto intorno alla lingua in epoca postcoloniale. Come spiegato dallo scrittore, i colonizzatori si sono imposti sui colonizzati attraverso la violenza, imponendo un controllo non solo economico e politico ma anche culturale. L’ideologia razzista è stata utilizzata per giustificare il colonialismo ed è riuscita a entrare anche nelle teste dei popoli colonizzati.

Decolonizzare le menti significa abbandonare i pregiudizi e gli stereotipi che implicano la superiorità di una “razza” sull’altra. Il colonialismo si basava sull’idea che le popolazioni native non fossero in grado di badare a se stesse – in quanto “inferiori”, “incivili” e “selvagge” – e che avessero bisogno dell’aiuto (o meglio di essere assoggettate al controllo) degli occidentali – che possedevano una cultura “superiore” e vivevano in una società “civilizzata”. Questo è stato il presupposto alla base di secoli di sfruttamento delle risorse e dei popoli autoctoni, che si sono visti sottrarre le loro terre. Oggi molte cose sono cambiate ma, nonostante la lotta dei popoli colonizzati per l’indipendenza e la libertà, l’ideologia coloniale non ha smesso di influenzare la società in cui viviamo.

Se in passato gli autoctoni venivano privati delle loro terre sulla convinzione che queste ultime fossero “terra nullius” abitate da popolazioni “primitive”, nella contemporaneità gli stessi popoli continuano ad essere obbligati a rinunciare alle loro risorse con la forza. Il modello che in tempi recenti si è fatto strada sulla base di un’ideologia coloniale e razzista è quello della “Conservazione fortezza”. Un modello che ha avuto origine nel XIX secolo con l’istituzione dei primi parchi nazionali negli Stati Uniti, nati dalle terre tolte ai Nativi Americani. L’idea di fondo è che i popoli indigeni, troppo “inferiori” per prendersi cura delle loro terre, debbano essere allontanati da queste ultime in modo da poterle conservare. Stati e organizzazioni occidentali si sono convinti di essere gli unici in grado di sviluppare strategie adatte alla conservazione delle terre cacciando i nativi che le abitano, quando l’ironia della sorte vuole che siano proprio questi ultimi a saperle gestire al meglio.

La guida per decolonizzare il linguaggio di Survival

Survival International ha realizzato una guida con lo scopo di “decolonizzare il linguaggio nella conservazione”, nella quale ha evidenziato come il tema sia strettamente collegato al colonialismo e al suo pensiero, da cui si è sviluppato. In tal senso il linguaggio ha una funzione chiave: attraverso l’analisi dei termini che vengono utilizzati nel discorso sulla conservazione ambientale è emersa una visione razzista che influenza il modo di pensare di chiunque e, di conseguenza, le scelte e le politiche adottate in materia. Inoltre, le soluzioni proposte dai governi e dalle organizzazioni non governative con l’obiettivo di “salvare” l’ambiente in molti casi rientrano solamente nella sfera delle attività di greenwashing e finiscono col peggiorare la vita degli autoctoni.

La guida inizia fornendo una definizione del modello della “Conservazione fortezza”, che trova applicazione nella creazione di aree protette. Il concetto implica l’estromissione delle popolazioni native dalle loro terre sulla convinzione che la presenza umana costituisca un rischio per il benessere ambientale. I parchi nazionali e le riserve faunistiche che attirano tanto i turisti nascono dal sangue delle popolazioni che vengono maltrattate, uccise e costrette a rinunciare alle loro terre ancestrali (perdendo i luoghi dedicati alla caccia, alla raccolta di piante che vengono utilizzate come medicinali o alla celebrazione di riti). La conservazione è ormai un business che interessa le più famose ONG. La creazione di parchi nazionali e riserve faunistiche, infatti, rappresenta una fonte di guadagno: diverse sono le ONG che operano in tale ambito come delle imprese e si dedicano, per esempio, alla promozione di vacanze fino ad arrivare a collaborare con compagnie occupate nel taglio del legno.

Proseguendo nella lettura è possibile trovare un’interessante lista di coppie di “termini da decostruire”. Il linguaggio razzista prevede l’attribuzione di un’accezione negativa alle parole usate per descrivere ciò che riguarda le azioni e l’universo di coloro che vengono discriminati. Per esempio, i termini “bracconaggio” e “caccia” vengono spesso usati seguendo un doppio standard. Da una parte il primo è utilizzato in riferimento ai cacciatori-raccoglitori nativi con una percezione negativa, che si lega all’allontanamento dalle terre in cui questi ultimi praticano le loro attività. D’altra parte, si usa il termine “caccia” per indicare il passatempo dei turisti – nella maggior parte dei casi ricchi e occidentali – che praticano uno “sport” (l’uccisione degli animali locali) in aree sottratte alle popolazioni del posto.

Il “bracconaggio” viene colpevolizzato senza fare una vera distinzione tra coloro che cacciano per potersi procurare il cibo necessario a vivere, in modo sostenibile, e i membri di organizzazioni illegali che operano a livello internazionale nel mercato della fauna selvatica. Gli autoctoni vengono puniti quando cercano di entrare nelle terre che le organizzazioni occidentali decidono di designare come aree protette per procurarsi le risorse di cui necessitano e alle quali dovrebbero avere diritto di accedere. Nel secondo gruppo, invece, si trovano persone che agiscono anche con l’aiuto delle autorità che dovrebbero sorvegliare i parchi o dei cosiddetti “guardaparco”. A proposito di questi ultimi, la guida ci tiene a precisare che gli agenti (appartenenti a forze militari e paramilitari) a cui viene affidato il compito di controllare le aree protette spesso sono armati e pronti a maltrattare, torturare, abusare sessualmente e arrestare in modo arbitrario i nativi senza dover rispondere delle loro azioni.

Survival analizza anche quelle che vengono presentate come “strategie” per la difesa dell’ambiente ma che, in realtà, non fanno altro che danneggiare le popolazioni autoctone e le loro terre mentre le industrie dei Paesi occidentali continuano a inquinare. Con i progetti di compensazione fondati sui crediti di carbonio le aziende inquinanti possono riparare alle loro continue emissioni di anidride carbonica tramite il finanziamento di programmi come le “Soluzioni Basate sulla Natura” (NBS) attuati in altri Paesi del mondo. Le principali attività che rientrano nel concetto di NBS sono la riforestazione (piantare alberi in zone che hanno subito disboscamentii) e la forestazione (piantare alberi in aree in cui non erano presenti in precedenza), oppure la conservazione di foreste in grado di assorbire la CO2. Queste strategie non combattono i fattori responsabili dell’emergenza climatica alla loro radice e, oltre ad essere spesso mal sortite e inefficaci, diventano causa dell’espulsione dalla terra delle popolazioni autoctone con limitazioni destinate a portarle alla povertà.

Nonostante la legge internazionale preveda che i nativi vengano consultati prima della realizzazione di progetti simili e che debbano essere informati in modo da poter decidere di dare o meno il loro consenso, spesso tali predisposizioni non vengono seguite. Le strategie di conservazione ambientale non fanno altro che perpetuare il modello coloniale. I popoli nativi continuano ad essere percepiti come “inadatti” a vivere nelle terre che per migliaia di anni hanno plasmato con rispetto e dedizione (a differenza dei governi degli Stati industrializzati, responsabili di un’inquinamento che sta avendo effetti drammatici e convinti di potersi scagionare con l’acquisto di crediti di carbonio).

I coloni occidentali arrivati nel “Nuovo Mondo” si sono appropriati delle terre percepite come “selvagge” eliminando ed espellendo i popoli che le abitavano senza pensare al fatto che le terre di cui si stavano impadronendo non erano affatto “vergini”. Erano stati propri gli autoctoni a curarle, mentre i coloni erano convinti che il loro destino fosse accaparrarsene il controllo. A distanza di secoli l’idea che per conservare la natura e le sue risorse sia necessario allontanare (ed eliminare) le popolazioni autoctone, che continuano ad essere percepite come “inferiori” e meno capaci, e istituire delle aree protette curate da organizzazioni e governi occidentali (o persone legate al mondo occidentale) non ha abbandonato la nostra società. La violenza sistematica e lo sfruttamento, inoltre, vengono sempre utilizzati come i mezzi fondamentali per imporre la propria volontà.

Cindy Delfini

Classe '97, Milano. Studio scienze Politiche, Economiche e Sociali, con un forte interesse verso i diritti civili. Sono appassionata di arte nelle sue diverse forme di espressione: musica, danza, cinema, serie TV, letteratura.

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