Mank. Locandina ufficiale Netflix

Il cinema, come qualsiasi forma di espressione, è uno strumento artistico da maneggiare con cura: una comunicazione necessariamente da contestualizzare al di là del bene e del male affinché non si invischii nella rete demistificante della mitizzazione. David Fincher attraverso la sua ultima opera, Mank, cala lo spettatore nella realtà hollywoodiana degli anni Trenta, raccontando la storia umana, troppo umana, di Herman J. Mankiewicz, co-sceneggiatore del capolavoro diretto e scritto da Orson Welles Quarto Potere (1941). La pellicola, prodotta e distribuita da Netflix a partire dal 4 dicembre, si basa su uno script composto negli anni novanta dal padre Jack Fincher (morto nel 2003). Così come Welles ricercò dalla RKO una totale libertà creativa per realizzare quello che per molti è il miglior film della storia, David Fincher nel 2020 si svincola dalle catene produttive dell’Hollywood system per portare in streaming una pellicola che, seppur lontana dal capolavoro, è una lezione di regia.

Fincher negli anni Trenta

Herman Mankiewicz, interpretato magistralmente dall’impeccabile Gary Oldman (forse vicino alla seconda statuetta) è uno sceneggiatore disilluso, alcolista, pirandellianamente disinteressato, che guarda con occhio critico e quasi con disprezzo l’ipocrisia del capitalismo cinematografico dell’America della Grande depressione. Una biografia che non ha nulla da invidiare all’invenzione drammatica: difatti la pellicola si configura con un gioco metacinematografico come una “messa in sceneggiatura“. Non è un caso che l’alternarsi tra fabula e l’intreccio dell’analessi viene indicato da intestazioni che riproducono la macchina da scrivere; la stessa macchina che contraddistingue la vita tanto ambigua di “Mank“. Fincher tenta in un gioco di mimesi estetica di girare un film degli e negli anni trenta: profondità di campo, bianco e nero, inquadrature fisse (che sono tra l’altro un marchio di fabbrica del regista), effetto pellicola. Innumerevoli, ovviamente, i rimandi a Quarto Potere, che si configurano quasi come dei presupposti stessi che sarebbero poi andati a confluire nel capolavoro wellesiano. Mank è una realtà ricca di citazioni e stilemi che tuttavia riescono magicamente ad assumare una nuova fisionomia grazie alla plasmazione del regista. Forma e contenuto sono aggrovigliati da un ideale filo conduttore, che è difatti la sua visione del mondo: il teatro delle maschere dello spettacolo.

Mank e la critica wellesiana

Gary Oldman in Mank. Netflix ©
Gary Oldman in Mank. Netflix © 

Critica wellesiana (e potremmo dire fincheriana) e non critica a Welles. Molti hanno discusso sulla faziosità di Mank di eredità paterna. Jack Fincher era dichiaratamente antiwellesiano, ma ciò non pertiene alla volontà del figlio David, la quale non è di dirigere un romanzo inchiesta sulla disputa Mankiewicz-Welles intorno alla paternità della sceneggiatura di Quarto Potere. La pellicola, attraverso la storia dell’ “uomo più divertente di New York”, in realtà si pone come succeditrice dello spirito che ha animato la stessa creature del protagonista: la critica al quarto potere, alla tirannia dei mezzi di comunicazione di massa. Una tematica, come suddetto, tutta fincheriana (The Game, Seven, The Social Network, Gone Girl), ma calata in un contesto primigenio che lì trova le sue radici e sboccia con il capolavoro del ’41. La società di massa proprio negli anni Trenta sedimenta la propria natura barbarica (si prende qui in prestino un aggettivo tutto montaliano) grazie ai prodotti audiovisivi tanto che «per un pubblico ignaro uno sceneggiatore è una minaccia più di un burocrate di partito». E la sopravvivenza di quel cinema “spettacolarizzante”, in un periodo di sofferenza generale per la crisi del ’29, può avvenire soltanto grazie al connubio tra ricchi imprenditori cinematografici e magnati dell’industria tipografica legati alle classi politiche: sarà lo stesso spregiudicato William Randolph Hearst, il padre del giornalismo scandalistico, a ispirare la scrittura di Mankiewicz. In un clima di appiattimento artistico, di omologazione dell’arte cinematografica, ciò che mancava era appunto un atto in toto rivoluzionario: il Quarto Potere, che viene unanimemente considerato il capostipite del cinema moderno americano. Riflessione cinematografica da un lato e riflessione sociologica dall’altro: Mank è la conferma della grandezza artistica di uno dei registi più influenti degli ultimi 20 anni. E duole dirlo, ma probabilmente senza l’aiuto di Netflix Fincher non lo avrebbe mai girato: siamo sicuri di essere così distanti da quella standardizzazione produttiva?

punto netflix Mank

Luca Longo

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