La finanza fossile avvelena l'Italia e nessuno muove un dito
Sebastião Salgado - Kuwait (gerryco23.wordpress.com)

Il mese di aprile è stato scandito dagli interventi non-violenti di Extinction Rebellion, movimento di disobbedienza civile che agisce a salvaguardia dell’ambiente, dando il via alla Campagna di Ribellione 2021, con l’obiettivo d’evidenziare le dinamiche della finanza fossile in Italia e contrastare la crisi climatica in atto.

L’impiego del carbone in Italia è limitato a pochissimi siti attualmente attivi. Difatti, l’unico a produrne un quantitativo rilevante si trova in Sardegna, nel bacino del Sulcis Iglesiente. Secondo Assocarboni, qui viene prodotto un milione di tonnellate annue di carbone di bassa qualità, poiché troppo ricco di zolfo, compromettendo l’intero ecosistema locale e incrementando le morti premature della popolazione che abita nelle aree limitrofe. Per quanto concerne l’estrazione petrolifera, l’Italia si impegna a estrarre in diverse aree, sia su terraferma che offshore. Il territorio più ricco di petrolio è la Sicilia, sia in terraferma che in mare aperto, inoltre hanno un importante risultato estrattivo l’area della Val d’Agri in Basilicata e Porto Orsini al largo di Ravenna, nell’Adriatico. L’irrisoria produzione di carbone e l’estrazione modesta di petrolio e gas costringono l’Italia a concentrare il fabbisogno energetico sull’importazione, dimostrandosi il Paese UE col più alto indice di dipendenza energetica; dipendiamo al 92,9% dall’energia di altri Paesi come Russia, Norvegia, Cina o Canada.

Permettere ad aziende energetiche di estrarre su terraferma o in mare aperto e acquistare combustibili fossili dall’estero, alimentando il mercato dell’energia nera, non sono gli unici metodi per alimentare la crisi climatica in atto e non rispettare del tutto i trattati e gli accordi internazionali sul clima. Pertanto, si parla di finanza fossile proprio in merito a ciò: è grazie ai rapporti di Greenpeace e Re:Common che possiamo constatare come i maggiori gruppi finanziari e assicurativi italiani si impegnino nel sovvenzionare o assicurare le società più inquinanti d’Europa.

La comunità scientifica ha stabilito che, per raggiungere gli obiettivi richiesti dall’accordo di Parigi, l’Europa dovrebbe decarbonizzarsi entro il 2030, ma nonostante ciò dalla COP21 a oggi le banche hanno investito circa 1200 miliardi di dollari sul carbon fossile.

Le banche che finanziano la crisi climatica

Nel 2019 gli istituti di credito nostrani hanno contribuito all’emissione di 90 milioni tonnellate di CO2, più gas serra di quanto l’Austria produca in un anno. Le due banche più virtuose nella finanza fossile sono Intesa San Paolo e Unicredit. Entrambi gli istituti, nel 2019, hanno contribuito al’emissione di 73 milioni di tonnellate di CO2, un quantitativo di gas serra equivalente a quattro volte il totale emesso da tutte le centrali a carbone del Paese. Pertanto, i finanziamenti e gli investimenti fossili dei due istituti bancari si concentrano sulle società più inquinanti d’Europa. 

La società tedesca RWE vanta il primato di più grande inquinatrice d’Europa con le sue 120 milioni di tonnellate di CO2 emesse ogni anno e con la maggior produzione di lignite al mondo, la varietà di carbone più dannosa per la salute; si stima che il 12% delle morti premature da carbone siano dovute agli stabilimenti RWE. I finanziamenti percepiti dalla società, da parte delle banche italiane, ammontano a 490 milioni di euro e il 70% di essi proviene da Unicredit e Intesa, che hanno prestato 380 milioni, con il risultato finale di far espandere le centrali RWE così da acuire la crisi climatica in atto.

Per quanto riguarda le società italiane sovvenzionate dalla finanza fossile, la capofila è ENI, partecipata al 30% dallo Stato italiano. Nota per il processo svoltosi presso il tribunale di Milano che la vede accusata per corruzione internazionale ai danni della Nigeria, dov’è implicata nell’inquinamento del Delta del Niger. Inoltre, è anche nota per il processo svoltosi presso il tribunale di Potenza con l’accusa di disastro ambientale per lo sversamento di 400 tonnellate di petrolio nell’area della Val d’Agri, in Basilicata. Nonostante ciò, può contare su 1,2 miliardi di euro finanziati dai più grandi istituti bancari. Di questi, fra prestiti e sottoscrizioni, quasi 900 milioni di euro fanno capo proprio a Intesa e Unicredit. Ma non si sono verificate soltanto nefaste conseguenze ambientali. Nelle aree colpite dalle scelleratezze della finanza fossile, sono avvenute evidenti violazioni dei diritti umani.

Crisi climatica 
Finanza fossile
Delta del Niger inquinato (Amnesty International)

Il gruppo bancario Intesa San Paolo, inoltre, fra il 2017 e il 2019 ha stanziato 2,6 miliardi di euro per foraggiare la finanza fossile, sostenendo anche la Adani, multinazionale indiana che ha, fra i suoi progetti, la realizzazione della più grande miniera di carbone australiana, la Carmichael. L’obiettivo della società è estrarre 60 milioni di tonnellate di carbone all’anno per almeno sessant’anni, traducendo il tutto in 4,6 miliardi di tonnellate di CO2, di cui potrà vantarsi anche Intesa.

Le banche italiane, dal canto loro, vantano azioni di impronta green coi loro clienti e investitori, annunciando investimenti esosi riguardo le energie rinnovabili e cambiamenti di policy nei confronti delle società che operano coi combustibili fossili, ma tutto ciò ha le chiare fattezze del greenwashing. Le banche hanno deciso di non finanziare progetti per nuovi impianti e centrali a combustibili non convenzionali, mantenendo però attivi i flussi creditizi nei confronti dei progetti pre-esistenti e con le società già clienti. Ciò non permette la creazione di nuovi stabilimenti che minaccino l’ambiente cosicché l’opinione pubblica possa accogliere queste nuove policy come forma di lotta alla crisi climatica, ma non sono altro che greenwashing. Dunque, a una analisi più oculata delle politiche d’investimento, è palese la mistificazione delle dichiarazioni green dei board delle banche. Invece, altri istituti europei sono stati in grado di evitare l’ecologismo di facciata, come Crédit Agricole che ha deciso di finanziare soltanto società che presentino un vero piano di transizione verso quelli che sono gli obiettivi dell’accordo di Parigi.

La crisi climatica assicura la finanza fossile

Finanziamenti e sottoscrizioni non sono gli unici strumenti per finanziare i giganti neri. La finanza fossile è costituita anche dalle assicurazioni, necessarie per la realizzazione, il funzionamento e la protezione delle miniere e delle centrali a carbone. 

In Europa, Assicurazioni Generali è fra le compagnie più attive in questo campo, stipulando polizze in particolare modo con la PGE e la CEZ, società attive nel carbon fossile fra le più inquinanti d’Europa. Con le sue polizze, Generali si pone a difesa dell’azienda polacca nei suoi stabilimenti di Bełchatów, la centrale più inquinante d’Europa, le cui emissioni, secondo ClientEarth, sono state responsabili di 489 morti premature nel 2016.

Per quanto riguarda CEZ, anch’ella vanta di essere fra le centrali più inquinanti d’Europa, si è venuta a creare una situazione singolare con Generali: la centrale più impattante della società, Počerady, assicurata dal Leone di Trieste, è stata rilevata da un’altra società del settore, la Sev.en, con conseguente interruzione della polizza assicurativa.

Crisi climatica
Finanza fossile
Centrale a carbone di Počerady (Greenpeace e Re:Common)

Dunque, Generali ha deciso di non garantire una centrale che ha causato 148 morti premature per via delle sue emissioni; tutto ciò non per combattere la crisi climatica, bensì esclusivamente per questioni legate alla proprietà. Non fornendo spiegazioni a riguardo, ha continuato a finanziare CEZ per circa 17 milioni di euro. 

Interrompere la stipula di assicurazioni a società come quelle menzionate, sarebbe decisivo per la lotta alla crisi climatica poiché in tal modo non potrebbero essere costruite nuove centrali, né quelle già esistenti potrebbero operare, prive di polizze che tutelino gli stabilimenti. Perciò, assicurarle significa contribuire massivamente all’emissione di CO2, al rallentamento del phase-out richiesto da COP21 e, con ciò, indurre le società del carbon fossile alla scriteriata espansione e intensificazione delle estrazioni. 

La bolla della finanza fossile

La finanza fossile, però, non contribuisce soltanto alla crisi climatica in queste misure, bensì anche alimentando un’importante crisi economica che ipoteca il futuro della popolazione mondiale, gonfiando una bolla finanziaria di enorme portata. L’espressione «bolla finanziaria» rimanda alla crisi dei mutui subprime del 2007, creatasi a causa delle speculazioni a danno del mercato immobiliare americano, coinvolgendo poi il mondo intero. Con i combustibili fossili, secondo l’economista e sociologo americano Jeremy Rifkin, si verificherà una situazione analoga. A ora, le banche continuano a finanziare massivamente i combustibili non convenzionali, gonfiando una bolla fossile. 

Secondo Rifkin, questi combustibili possono esser definiti stranded assets, ovvero beni poco remunerativi, ma molto costosi, anche se la transizione energetica globale non è ancora stata compiuta e dunque, non sono ancora caduti in disuso. Ciò è avvenuto sia grazie ai primi risultati dell’Accordo di Parigi, sia per le prime iniziative dei singoli Paesi verso un approccio più eco-solidale alla ricerca di energia, sia anche all’abbassamento dei costi per gli impianti di energia sostenibile. Secondo i ricercatori della Cambridge University, se non verrà ridimensionata questa bolla alimentata dalle banche attraverso policy ombrose, le perdite ammonteranno a cifre dai mille ai quattromila miliardi di dollari, superando di gran lunga la crisi del 2007.

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Extincion Rebellion Italia (XR Italia)

Extinction Rebellion Italia, propone un modo molto semplice per disinvestire dal fossile affinché si possa contrastare effettivamente la finanza fossile e la crisi climatica. L’operato dei vari movimenti ecologisti e la loro continua ricerca della verità riguardo le azioni dei colossi della finanza fossile proseguiranno fin quando non riusciremo a evitare le conseguenze dell’Antropocene.

Andrea Agrillo

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