Se mai foste incaricati di chiedere a un numero campionato di passanti la seguente domanda: «Siete interamente padroni delle vostre attività su internet?» È indubbio che almeno gli elementi di età più avanzata rispondano no. Ma, al di là di queste supposizioni, siamo realmente sicuri che alcune ricerche che compiamo, oggetti che acquistiamo sui siti di e-commerce o i film che vediamo dipendano esclusivamente dalla nostra volontà? Negli ultimi anni, alcuni studiosi hanno posto i riflettori su un argomento alquanto sconosciuto tra i più: i bot.
Il bot – abbreviazione di robot – è un programma informatico che naviga in rete attraverso i medesimi canali di accesso per i quali passano gli utenti “umani”. Questi hanno acquisito una crescente popolarità a partire dalla metà degli anni Novanta, quando colossi del web come Google iniziarono ad appoggiarsi a questi strumenti per gestire i loro servizi. Difatti, i bot possiedono un’infinità di funzioni e usi, che gli consentono di realizzare un sito web e persino diventare artisti in fieri. Non a caso, la prima tela realizzata da un algoritmo, “Ritratto d’Edmond Belamy“, è stata venduta per un totale di 432 mila dollari.
L’influenza – per alcuni eccessiva per altri ininfluente – dei bot nelle vicende politiche è altresì un campo da tener d’occhio. «Oggi si parla molto dei bot sui social network che influenzano il dibattito politico – dice Ben Nimmo, direttore del settore ricerca di Graphika – […] Si tratta di profili costruiti per convincere gli utenti di essere in contatto con una persona. In realtà – conclude – un utente pensa di parlare con una persona reale quando in realtà si tratta di un profilo falso».
Pertanto, negli ultimi anni i bot sono stati esplicitamente incriminati di aver alterato la percezione degli individui rispetto agli eventi politici, ingigantendoli o ridimensionandoli a seconda delle intenzioni. In riferimento a ciò, la Brexit – ratificata giusto qualche mese fa – e l’ascesa alla presidenza di Donald Trump nel 2016 dovrebbero rappresentare l’emergenza che dovrebbe farci riflettere. Proprio nel periodo della campagna elettorale di Donald Trump, molti pensavano che in realtà un gran numero di bot controllati dai russi stessero favorendo l’ex presidente, in quanto, condividendo sui loro profili news relative a Trump, convincevano gli utenti reali che allora lui dovesse essere il presidente giusto. I bot, per ovvi motivi, non possono votare, ma possono influenzare il voto dei cittadini.
Nel 2016, infatti, alcuni ricercatori hanno svelato una cospicua attività di manipolazione sui social network durante le presidenziali degli Stati Uniti: in quel momento, circa 400.000 mila utenti – ossia il 15% percento degli statunitensi iscritti al social – nascondevano dei bot che sono stati responsabili complessivamente del 20 per cento degli interventi online (hashtag, condivisioni e cinguettii). Nel Regno Unito, invece, i bot hanno distorto il piccato dibattito sulla Brexit. Numerosi gli hashtag con i sostenitori della Brexit che hanno riempito le bacheche online, e meno dell’uno percento dei profili ha prodotto un terzo dei messaggi.
«Distinguere i bot dagli essere umani è diventata una sfida intellettuale», dice ancora Ben Nimmo, che proprio sulla scorta di queste difficoltà interpretative ha elaborato la teoria “delle tre A”: attività, anonimato e amplificazione. Se il profilo che si sta analizzando risulta positivo a tutti e tre i requisiti, allora possiamo è possibile identificarlo come un bot. Nello specifico, l’attività indica la mole di interventi – da parte di un bot o un insieme di bot – in un dato periodo di tempo; l’anonimato riflette l’insieme di informazioni che rendono il profilo credibile, come se appartenesse ad una persona reale, insomma; l’amplificazione indaga il tipo di contenuti pubblicati dai profili: se, in altri termini, sono originali o presi da altri account.
Yuval Noah Harari è uno storico, saggista e filosofo che negli ultimi anni si è occupato spesso di intelligenza artificiale (da adesso IA) bot e i loro algoritmi. Tra le sue tante pubblicazioni, la recente 21 Lezioni per il XXII secolo si occupa di tutti questi temi riconducendoli sotto un unico concetto: la sfida tecnologica. Secondo Harari, la convergenza delle nuove tecnologie biologiche e informatiche metterà l’umanità di fronte alla più grande sfida che abbia mai affrontato; inoltre, egli pone la questione su tre diversi ambiti: l’IA relazionata con il lavoro, post-verità e libertà, dove le ultime due sono strettamente connesse.
«Gli esseri umani hanno due tipi di abilità, – dice Harari nel suo libro – fisiche e mentali. In passato gli uomini mantenevano un immenso vantaggio sulle macchine nelle facoltà cognitive […] Adesso, l’IA comincia a superare gli uomini in numerose prestazioni, inclusa la comprensione delle dinamiche emotive umane». Ogni nostra scelta, stando a quanto scrive Harari, da ciò che mangiamo alle persone che amiamo ai vestiti che acquistiamo non dipende da un fantomatico libero arbitrio bensì da un miliardo di neuroni, i quali fanno capo a processi biochimici che calcolano probabilità in una frazione di secondo. Se anche il nostro cervello è un insieme di calcoli, allora, questo significa che l’IA può superarci tranquillamente. In aggiunta, in futuro non si avvererà quella tanto temuta “disoccupazione di massa”: serviranno nuove specializzazioni informatiche, sì, ma è inverosimile che gli esseri umani vengano soppiantati del tutto dalle macchine, piuttosto è possibile che umani e IA collaboreranno in una rete integrata e condivisa.
C’è libero arbitrio in una società governata da bot telecomandati dai loro algoritmi e cinguettatori seriosi di fake-news? Forse, afferma Harari. A parer suo gli algoritmi saranno in grado di dare consigli migliori del nostro intimo sentire. L’autorità si sposterà dagli umani ai computer e, laddove questo dovesse accadere, crollerà la nostra illusione di possedere una libera volontà di scelta. Harari ci tiene a precisare che le sue previsioni non vogliono assumere caratteri fantascientifici. E ci sconsiglia vivamente di credere che sia mera fantascienza. «Che cosa accadrà a questa visione della vita quando lasceremo all’IA il compito di stabilire cosa fare al posto nostro?» si domanda Harari. «Una volta che contiamo sull’IA per scegliere cosa studiare, dove lavorare e chi sposare, la nostra vita cesserà di essere un dramma sociale: il dilemma shakespeariano sarà obsoleto; immaginate Amleto consultare l’algoritmo per compiere la sua decisione cruciale». Oppure, fa riflettere Harari, pensate se una banca guidata da un algoritmo dovesse rifiutarvi un prestito. Ognuno di noi chiederebbe perché, e la banca risponderebbe che l’algoritmo ha detto di no. Chiedereste, allora, che cosa vi manca per beneficiare del prestito, e la banca risponderebbe: «Non lo sappiamo, nessuno capisce l’algoritmo».
Antonio Figliolino