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Fonte: www.blackenterprise.com

Joe Biden è stato confermato dai Grandi Elettori come presidente eletto degli Stati Uniti e, insieme a Kamala Harris, mette a punto la squadra di governo mentre si prende la copertina di Times. Dietro la patinata vittoria liberal, però, c’è tutta un’altra America che continua a rendere la transizione verso la nuova amministrazione difficile e accidentata, nelle aule dei tribunali come in piazza, anche con scontri e violenze. Se si pensava che con Trump, e soprattutto l’America di Trump, la partita fosse chiusa, ci si è dovuti ricredere in fretta.

Trump tra guerra istituzionale…

Per quanti ricorsi elettorali possa aver perso e per quante sconfitte politiche possano stare riscuotendo gli ultimi colpi di coda del suo populismo antidemocratico, Donald Trump ha continuato a gonfiare il petto in comizi programmati e altri eventi mediatici estemporanei (affrontati rigorosamente senza mascherina), così come sul solito e immancabile Twitter. Questa resistenza ostinata e incrollabile, che sta mettendo in crisi agli occhi del mondo l’immagine della democrazia americana, è ovviamente studiata e interessata e per questo non destinata a terminare con facilità.

È noto quanto sia necessario per Trump evitare che il sipario sulla sua presidenza cali troppo in fretta, per non rischiare di uscire dalle scene mediatiche e cadere nel vortice di processi penali che, se non fosse avesse goduto dell’immunità presidenziale, l’avrebbe risucchiato già da tempo. Lasciare la Casa Bianca in conflitto con quelli che ritiene i “poteri forti” in combutta contro di lui, invece, gli consentirebbe di alimentare la propria immagine di perseguitato, col doppio effetto di delegittimare i prossimi, eventuali verdetti di colpevolezza e magari ottenere una ricandidatura da autentico capopopolo (magari come indipendente, cosa peraltro inconsueta nel gioco politico americano) nel 2024.

Il comizio in Georgia del 6 dicembre è emblematico della guerra istituzionale scatenata dal presidente, che non risparmia neppure i membri del suo partito: il bersaglio di turno, stavolta, è stato Brian Kemp, governatore, appunto, dello Stato della Georgia dove Trump ha perso per circa 12000 voti (e che è tornato a scegliere un presidente democratico dopo quasi trent’anni). Kemp, secondo The Donald, dovrebbe ricontare i numeri di schede e buste che le contenevano, per rivelare brogli sull’effettivo numero delle stesse schede (ipotizzate in sovrannumero rispetto alle buste); inoltre, sempre per portare alla luce inquinamenti del voto di novembre, Kemp dovrebbe ordinare una verifica delle firme degli elettori, in modo da autenticarle di nuovo.

Kemp, peraltro repubblicano, non sembra volersi prestare all’ennesima provocazione di Trump, il quale pure ha affermato che il governatore della Georgia abbia il potere speciale di imporre il ricontrollo delle schede. Si tratta di un’ipotesi, però, priva di fondamento, nel consueto stile populistico-complottista del presidente: come ha detto lo stesso Kemp, il sistema istituzionale non gli consente di comandare il nuovo scrutinio, che tra l’altro ha detto di aver già richiesto.

… e guerriglia urbana

Il problema con la retorica trumpiana è che il suo popolo disorientato, senza cultura, senza conoscenza dell’architettura dello Stato e incapace di concepire la corretta separazione dei poteri non ha la capacità a distinguere le fake news dal diritto pubblico. Se il Capo dice che un ricontrollo sarebbe necessario e doveroso, tanto più perché davvero “facile” da eseguire, è naturale che il trumpiano tipico ci creda: perché non procedere a una verifica così “semplice”, se non c’è qualcosa (ovvero i brogli) da nascondere? La “teoria del complotto” si è già dimostrata in grado di alimentare rabbia virtuale e violenza concreta.

In fondo, negli Stati Uniti appare sempre più usuale partecipare a una manifestazione armati di fucili e pistole: la folla di sostenitori del “perseguitato” l’ha fatto ancora, scendendo in strada per farsi sentire anche a suon di proiettili. È successo in diverse città degli Stati Uniti solo pochi giorni fa, ed anche a Washington D.C., dove la polizia ha dovuto affrontare una manifestazione che rischiava di diventare pericolosa, tra scontri e spari.

Questo clima di perenne inquietudine è nel frattempo alimentato da una polarizzazione del potere giudiziario mai osservata prima negli Stati Uniti, con procuratori delle Corti statali, e in particolare del Texas, che continuano a istruire i ricorsi contro le presunte frodi elettorali, sostenuti da politici locali e nazionali; a questo schieramento “liquido” si contrappongono i procuratori e politici di area democratica, che continuano a rintuzzare gli argomenti dei colleghi più oltranzisti. La Corte Suprema, rigettando il ricorso proprio del procuratore del Texas, ha cercato di dare un segnale forte e definitivo, ma dal confronto col complottismo di Trump anche la magistratura di vertice rischia di uscire delegittimata.

Una transizione sempre più “anormale”

La macchina mediatica di Trump non si nutre di solo scontro istituzionale, ma insinua continuamente sospetti di scandali e trame occulte anche in seno al gabinetto presidenziale. L’ultimo a cadere è stato il procuratore generale William Barr, che prima del voto non avrebbe rivelato le indagini su Hunter Biden, figlio del presidente eletto sempre più nella bufera per presunte evasioni fiscali, privando così il presidente di un’efficace arma di propaganda per delegittimare l’avversario. Gli uomini del presidente divengono traditori che hanno pugnalato alle spalle Trump e il popolo americano: è proprio questo tipo di propaganda che infiamma la piazza antidemocratica, razzista e violenta.

Può essere davvero difficile, insomma, inseguire una nuova normalità, per la democrazia americana. Seguire una road map non accidentata verso l’insediamento di Joe Biden appare ancora chimerico. Tale insediamento di Biden è ormai prossimo: il 20 gennaio il presidente eletto giurerà ufficialmente, dopo la conferma del voto popolare da parte dei Grandi Elettori di lunedì scorso, che non hanno riservato sorprese nonostante alcune ipotesi catastrofistiche di sovversione del voto di novembre pure circolate nelle passate settimane.

Senza dimenticare, poi, che il 5 gennaio si voterà anche per il ballottaggio delle elezioni di due senatori proprio in Georgia. Se Trump riuscisse a strappare i due seggi, questi gli consentirebbero di controllare il Senato durante almeno i primi due anni di presidenza Biden, impedendo una serena governabilità. Se invece il tycoon dovesse perdere, c’è da scommettere che la nuova sconfitta elettorale rischierebbe di trasformarsi in un nuovo argomento di conflitto.

In uno Stato giovane e con una forte componente multirazziale come la Georgia, l’eventualità di una ripresa dei democratici pro Biden è concreto, nonostante i repubblicani sembrino partire in vantaggio. Chi salverebbe il sistema di voto georgiano, in caso di nuova débâcle di Trump, dalle ennesime accuse e sospetti? Come si eviterebbe che la prossima folla inferocita e armata scenda in piazza per vendicare l’onore del Capo?

Ludovico Maremonti

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