Donne e acqua - questioni di genere
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Il 14 novembre, in occasione della giornata tematica “Donne e acqua” della COP27, si è fatto luce sulla necessità di promuovere e considerare l’uguaglianza e l’empowerment delle donne nell’attuazione delle politiche climatiche. Le donne, infatti, sono ancora fortemente sottorappresentate nella governance e nei dibattiti sul clima, pur essendo una delle categorie che più risente degli impatti negativi provocati dai cambiamenti climatici. Non a caso, una delle iniziative lanciate durante la giornata tematica è stata la African Women’s Climate Adaptive Priorities (AWCAP), che nasce proprio dalla constatazione che, in caso di calamità, le donne e i bambini costituiscono circa l’80% di coloro che necessitano assistenza, mentre le donne povere nelle aree rurali hanno 14 volte più probabilità di morire durante un disastro naturale. 

Come spiega Marina Andrijevic, analista di ricerca presso il Climate Analytics, «Esiste una solida base di prove che dimostra che le donne sono sproporzionatamente vulnerabili ai cambiamenti climatici, non perché ci sia qualcosa di intrinsecamente vulnerabile nelle donne, ma a causa di strutture socioculturali che privano le donne dell’accesso alle risorse, al processo decisionale, alle informazioni, e via dicendo».

Cambiamenti climatici e dinamiche di genere: un legame atavico

Questo, tuttavia, non deve portare a ritenere le donne vittime indifese del climate change e destinatarie passive delle politiche climatiche. Come ha mirato a dimostrare la giornata tematica Donne e acqua, esse sono, al contrario, agenti significativi e promotrici attive del cambiamento, in grado di contribuire a trovare soluzioni più efficaci e rispondenti alle esigenze di genere nella lotta alla crisi climatica. Ecco perché le riflessioni poste sulla vulnerabilità delle stesse non devono indurre a trascurare il ruolo delle strutture di potere e delle dinamiche sociali che incrementano in modo significativo gli effetti diseguali che i cambiamenti climatici provocano sulle donne.

Nei Paesi a basso reddito, per esempio, le donne dipendono fortemente dall’agricoltura che, in effetti, rappresenta il settore di occupazione per loro più significativo. Allo stesso tempo, però, l’agricoltura è anche uno dei settori che più risente delle alterazioni climatiche. L’irregolarità delle precipitazioni unitamente alla siccità può compromettere assai facilmente il buon esito dei raccolti, privando le donne della loro principale fonte di sostentamento e rendendo la loro vita progressivamente più precaria.

UN Women, inoltre, ha riscontrato che quelle situazioni che allontanano le donne dagli ambienti scolastici e che le costringono – avendo livelli di istruzione più bassi – ad affidarsi a mezzi di sostentamento più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici, le inducono anche a trascorrere buona parte del loro tempo all’interno degli ambienti domestici. Questo significa che non solo saranno costrette a farsi carico di ulteriori compiti assistenziali e di cura, ma anche che risentiranno in modo più pregnante di quelle norme di genere che “banalmente” possono far sì che alcune di esse non imparino mai a nuotare e che, quindi, abbiano maggiori probabilità di morire durante eventi meteorologici estremi.

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Un altro aspetto non trascurabile del legame tra climate change e questioni di genere è quello evidenziato da Lucy Ntongal, durante la giornata tematica dedicata alle donne. Secondo l’esperta keniota di clima e genere dell’ONG Actionaid, «La priorità per le madri è l’acqua e poiché i loro mariti hanno lasciato la casa in cerca di nuovi pascoli, le figlie vengono ritirate da scuola per percorrere chilometri a piedi e procurarsi l’acqua. Alla fine, però, devono sottoporsi a mutilazioni genitali femminili per essere date in sposa. Questo perché la famiglia non può permettersi di sfamare altre bocche».

La giornata tematica Donne e acqua e quel focus sulla leadership femminile

Le donne, dunque, continuano a sopportare il peso sproporzionato degli impatti negativi prodotti dai cambiamenti climatici e, come emerso dalla giornata tematica, nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, la prospettiva di genere necessita di sforzi maggiori per essere pienamente integrata nei processi di formulazione e attuazione delle politiche e delle azioni sul clima.

In particolare, una delle critiche mosse nei confronti delle iniziative più recenti è che queste ultime sembrerebbero essersi concentrate quasi esclusivamente nell’aumentare la percentuale di donne coinvolte nei vertici climatici. E per quanto, naturalmente, anche garantire un’adeguata rappresentanza numerica del genere femminile sia un importante risultato da conseguire, un simile atteggiamento può contribuire a creare false illusioni di inclusione.

Un maggiore equilibrio di genere, infatti, rischia di trasformarsi in una vittoria vuota se perpetua l’idea che tutte le donne subiscono gli impatti dei cambiamenti climatici allo stesso modo. Ma, purtroppo, il presupposto che fa da sfondo allo svolgimento delle iniziative basate sul genere si fonda proprio sull’idea, quantomai erronea, che le donne siano parte di un gruppo omogeneo, con preoccupazioni identiche che prescindono da altri aspetti identitari quali la razza, il contesto geografico, la capacità economica o l’appartenenza a un gruppo indigeno.

Una circostanza che finisce con il rafforzare – ed essere a sua volta rafforzata – dalle dinamiche di potere di cui i consessi sul clima non sono certo privi. Esprimendosi come voce unitaria, infatti, il gruppo delle donne finisce con l’essere guidato da chi dispone di maggiori risorse e influenza, ovvero le donne bianche del Nord globale. Anche la struttura e il formato delle COP contribuiscono, poi, a privilegiare alcuni gruppi e metodi di espressione, necessitando di negoziatori altamente qualificati con una vasta esperienza in ambito ONU e concedendo ai delegati solo pochi minuti a testa per intervenire durante le riunioni in plenaria.

Un percorso ancora lungo

Un’autentica integrazione del genere all’interno delle Conferenze sul clima implicherebbe, invece, una sua assimilazione in tutto il processo di sviluppo e attuazione delle politiche climatiche. Eppure, storicamente, le donne hanno trovato meno spazio all’interno delle istituzioni che si occupano di ambiente, dove tendenzialmente hanno rivestito incarichi di potere e ruoli dirigenziali con una frequenza minore rispetto ai colleghi maschi. Una circostanza che ci riguarda molto più da vicino di quello che potremmo pensare. Secondo l’Istituto Europeo per l’Equità di genere, nel 2021 solo il 26,8% dei ministri del governo responsabili delle politiche in materia di ambiente e cambiamenti climatici era donne a fronte del 73,2% di uomini. Dati che restituiscono bene la trasversalità di un fenomeno che, se non adeguatamente affrontato, non solo ci allontanerà dalla risoluzione della crisi climatica, ma finirà con l’aggravare ulteriormente la condizione di chi, quotidianamente, già sperimenta su di sé lo stigma della discriminazione, dello stereotipo e della disuguaglianza.

Virgilia De Cicco

Virgilia De Cicco
Ecofemminista. Autocritica, tanto. Autoironica, di più. Mi piace leggere, ma non ho un genere preferito. Spazio dall'etichetta dello Svelto a Murakami, passando per S.J. Gould. Mi sto appassionando all'ecologia politica e, a quanto pare, alla scrittura. Non ho un buon senso dell'orientamento, ma mi piace pensare che "se impari la strada a memoria di certo non trovi granché. Se invece smarrisci la rotta il mondo è lì tutto per te".

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