«Amleto» di Shakespeare: il dramma del lutto e dell'inazione
William Shakespeare - ''Amleto'' (LetteraEmme)

Amleto di William Shakespeare è indubbiamente una delle tragedie più rilevanti della letteratura drammatica sinora prodotta. È un’opera estremamente complessa, misteriosa, affascinante e problematica, e, in virtù di ciò, ha notevolmente contribuito alla nascita del teatro moderno; anzi secondo Harold Bloom il mito di Amleto ha inaugurato la cultura moderna tout court e di conseguenza lo stesso soggetto moderno: «La personalità come la intendiamo noi è un’invenzione shakespeariana. […] Non riusciamo a pensare a noi stessi come esseri autonomi senza pensare ad Amleto». Pertanto, è indubbio che molte delle più influenti indagini moderne sulla soggettività abbiano origine da considerazioni riguardanti il personaggio di Shakespeare.

Notoriamente il cosiddetto spirito europeo dal Rinascimento in poi ha avuto una tendenza alla de-mitizzazione; tuttavia, la letteratura europea ha dato vita a tre figure di riferimento dall’altissimo valore simbolico: Don Chisciotte, Amleto e Faust. Quest’ultimi rappresentano tre uomini di profonda cultura, seppur vittime della propria interiorità, con altrettante weltanschauung difformi tra loro. Difatti, il primo è un buon cattolico, il terzo è un tedesco protestante; invece, il seme del mito d’Amleto germoglia in mezzo a queste due visioni contrastanti. Perciò la sua genesi si sviluppa a partire dalla frattura epocale che segna il passaggio in Europa dal medievale ordine ecclesiastico-feudale al moderno ordine politico-statuale prodromo della rivoluzione industriale.

Infatti, le prime decadi del ‘600 rimandano a un periodo di gravissima tensione e di considerevoli stravolgimenti sia in ambito politico con il decesso della regina Elisabetta I d’Inghilterra e le sanguinose guerre civili e statuali in tutta Europa tra cattolici e protestanti, sia in ambito socio-economico con l’avvento del proto-capitalismo e l’ascesa della borghesia protestante e non, sia in ambito epistemologico con la nascita delle nuove scienze – in particolare il nuovo metodo baconiano – tese a confutare sistemi di valori ormai secolarizzatisi. Pertanto, in tale contesto storico, Amleto di Shakespeare è la tragedia par excellence che incarna e anticipa per molti versi le tensioni, i conflitti e le contraddizioni dell’epoca moderna.

L’ineguagliabile grandezza di Shakespeare sta proprio nell’aver colto dall’indomabile caos della sua realtà storico-politica la figura mitica di Amleto che, per l’appunto, raggiunge il Bardo inglese con tutti i crismi d’un autentico caposaldo culturale del teatro elisabettiano e con l’enorme valore simbolico-artistico d’una propria storia teatrale, in quanto archetipo della vendetta. Infatti, ben prima dell’opera tragica di Shakespeare, il dramma di Amleto, hegeliano artefice di se stesso, prende forma letteraria verso la fine del XII secolo nel contesto epico-leggendario dei Libri III e IV dei Gesta Danorum di Saxo Gramaticus, storico medievale danese. La vita del principe Amleth dello Jutland s’innesta nel racconto appartenente al genere origines gentium, ovvero le vicende del singolo popolo danese inserite a loro volta nel contesto mitico-religioso della storia universale.

Dunque, ciò che caratterizza l’azione di Amleth nell’opera è la determinazione e la strategica – fingendosi pazzo – maturazione della vendetta a nocumento dello zio Fengi, in onore del padre Orvendil assassinato e con lo scopo ultimo di divenire sovrano di Danimarca. In tal caso vige l’ancestrale legge del taglione, non i tormenti di coscienza provocati dal dubbio come nell’opera shakespeariana. Invece nella versione francese Histoires tragiques dello scrittore cinquecentesco Francois de Belleforest, derivante dalla traduzione dell’opera di Saxo Gramaticus, Amleto afflitto da una dilaniante malinconia perisce dopo lo zio. Infine, il dramma pre-shakespeariano perduto che completa la trasmissione del mythos amletico sino al Bardo dell’Avon è Ur-Hamlet, forse composto dal drammaturgo britannico Thomas Kyd, risalente all’inizio del XVI secolo.

Dunque, William Shakespeare si rifà esplicitamente a queste opere, oltre che all’Orestea di Eschilo, e la datazione – seppur incerta – che attesterebbe la composizione del suo Amleto si dovrebbe collocare tra il 1598 e il 1602, però, al contempo, vi sono differenti edizioni formato in-quarto della tragedia shakespeariana. La prima edizione risale al 1603 ed è nota come bad quartos a causa della sua scarsa legittimità e attendibilità dovuta in larga parte a una ricostruzione mnemonica svolta dagli attori e dalle attrici recitanti. Mentre la seconda edizione del 1604/1605 nonostante sia priva d’alcuni monologhi e d’alcune discussioni importanti tra Amleto, Rosencrantz e Guildenstern, è considerata la più autorevole; la terza edizione del 1611 è semplicemente una ristampa dell’antecedente. Infine, l’ultima e significativa edizione di Amleto – pubblicata postuma – è quella presente nel famigerato in-folio del 1623 con numerose correzioni e variazioni apportate dallo stesso Shakespeare.

Le evidenti omissioni e le incontestabili contraddizioni dell’opera teatrale di Shakespeare, più l’ingarbugliata vicenda editoriale in connubio con i molteplici slittamenti di significato e gli intrecci di trama della tragedia hanno generato innumerevoli interpretazioni filosofiche, psicoanalitiche, politico-giuridiche e storicistiche a tal punto da far sì che Amleto divenisse financo l’archetipo della problematicità umana.

Dunque, nella trasposizione shakespeariana dell’oggettivo nel soggettivo si manifesta la contrapposizione angosciosa e inesausta tra riconoscimento e alienazione, tra verità e menzogna, tra perdono e vendetta, tra sanità e follia, tra vita e morte. Questa drammatica spirale, che afferisce a un destino universale, rievoca le parole di Paul Valéry, scritte al termine del primo conflitto mondiale: «L’Europa è Amleto». Pertanto, il teatro di William Shakespeare risulta essere una mise en abyme dell’esistenza medesima in conformità alla sua famigerata asserzione: «tutto il mondo è un palcoscenico».

Così mediante il dramma nel dramma non si ha il parossismo dell’artificio bensì la brutale irruzione dell’eterna tragicità reale della storia che trascende persino la logica interna del dramma stesso: l’origine e la fine di un’epoca che, con il suo portato di lacerazione e inesprimibilità, trascina l’amletizzato soggetto moderno nel totale disancoramento in mezzo a un mare d’afflizioni.

«Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli. Morire dormire; nulla più: – e con un sonno dirsi che poniamo fine al dolore e alle infinite miserie, naturale retaggio della carne, è soluzione da desiderare ardentemente. Morire – dormire – sognare, forse: ma qui è l’ostacolo che ci trattiene: perché in quel sonno della morte quali sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo groviglio mortale: è la remora, questa, che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, gli spasimi dell’amore disprezzato, gli indugi della legge, l’insolenza di chi è investito di una carica, e gli scherni che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una gravosa vita, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte – la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore – confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo?». (W. Shakespeare, Amleto).

Amleto
Shakespeare
Carmelo Bene – ”Hommelette for Hamlet” (Centro Studi ‘Aldo Bello’ -)

Amleto: il trauma del lutto e dell’indecisione nel mare dell’incertezza

Amleto di Shakespeare è una tragedia ambientata a Elsinore in una Danimarca seicentesca retta da una monarchia elettiva marcescente e fondata sugli abusi di potere, sui misfatti e sull’efferatezza. Pertanto, nella sua complessità, l’opera rappresenta icasticamente il trauma del lutto e dell’indecisione del principe danese derivante dalla morte inaspettata del proprio padre sovrano causata dall’assassinio ordito da Claudio, ossia il fratello del re, poi dalla scelta della propria madre Gertrude d’unirsi repentinamente in matrimonio con lo zio usurpatore, e, infine – dopo lo smascheramento dell’omicida grazie alle verità disvelate dallo spettro irredento del padre – dalla stringente necessità di rivendicare il proprio diritto di sangue al trono e, quindi, di vendicarsi sulle atrocità commesse dallo zio-patrigno.

Dunque, attraverso il principe di Danimarca e studente dell’università di Wittenberg si manifesta il perpetuo dramma del desiderio e dell’inazione. Amleto è l’antropomorfizzazione dell’impasse esistenziale, infatti durante il suo costante rapporto conflittuale col destino s’abbandona alla sua passione dominante: il pensare e non l’agire. Egli è del tutto incapace di compiere un’azione totalizzante e teleologica, cioè finalizzata a un esito ben definito e inequivocabile. Ciò contrassegna inevitabilmente le sue parole e i suoi comportamenti a loro volta indici d’una ambigua disposizione mentale: decadenza morale, inidoneità all’azione e nevrosi. Gli intricati e oscuri intrecci narrativi, la finta pazzia, gli alterchi con l’amata e fragile Ofelia, gli scontri dialettici e l’uccisione del verboso Polonio, i calembour con i mediocri Rosencrantz e Guildenstern, l’oculata rappresentazione teatrale del regicidio, le accese diatribe con la madre preda della sua stessa voracità pulsionale e, infine, le reiterate esitazioni e procrastinazioni ad appannaggio dell’empio e machiavellico zio sovrano; rimandano indubitabilmente a un deviante darsi da fare al fine di non fare. Difatti, la lentezza del compimento della vendetta diviene una caratteristica ontologica dell’opera di Shakespeare. Qui, forse, s’annida la grandezza e l’abissale profondità del dramma stesso.

«Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi. Il ribrezzo che dovrebbe spingerlo alla vendetta è sostituito in lui da autorimproveri, scrupoli di coscienza, i quali gli rinfacciano che egli stesso, alla lettera, non è migliore del peccatore che dovrebbe punire». (S. Freud, Leonardo e altri scritti).

Lo spettro del padre, del resto, potrebbe essere considerato a sua volta come il doppelgänger di Amleto, sintomo evidente d’un io tribolato e scisso. Ragion per cui il perenne biasimarsi d’Amleto per la sua inazione ai fini vendicativi dopo le esortazioni del fantasma paterno, suggeriscono una lacerante aporia ermeneutica. Quest’ultimo dubbio scaturisce dal peso della responsabilità dell’imperativo morale alimentato dalle accese dispute teologiche del tempo, ossia tra protestantesimo e cattolicesimo, e nella fattispecie nel principe danese sfocia nell’interrogarsi sulla vera natura dello spettro: diabolica, purgatoriale o paradisiaca. Pertanto, il protagonista shakespeariano viene scosso dai sussulti gnoseologici e ideologici della sua epoca ma soprattutto dalla viscerale sfiducia nei riguardi della parola, in quanto medium espressivo capace di simulare l’inesistente e dissimulare l’esistente. La gravosità d’un frusto e putrido mondo lo imprigiona ancor di più in una lacerazione incomponibile alla coscienza.

Francis Bacon – ”Studio al ritratto di Innocenzo X” (ResearchGate)

Cosicché, per Amleto tutto diviene simulacro in un vorticoso inanellamento di falsificazioni semantiche e semiotiche; di conseguenza il suo scetticismo linguistico e segnico lo conduce a un vero e proprio abisso del senso. Questa dilagante diffidenza fa sì che si generi in lui una onirica e idillica nostalgia dell’essere, ossia l’idealizzazione del ritorno d’una parola, d’un atto che denoti autenticamente ciò che rappresenta. Egli agogna un mondo edenico – antecedente al pervertimento dei ruoli e delle virtù avvenuto con il degenere zio usurpatore – all’insegna dell’eroico e semi-divino re-padre ormai perduto.

«Il tempo è fuor di sesto. O sorte maledetta, che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto». (W. Shakespeare, Amleto).

Forse la stessa apparizione del fantasma paterno irredento diviene nient’altro che un’apparizione archetipica, una proiezione psichica che attraverso le immagini trova la sua voce, ragion per cui questa irruzione del sovrannaturale nel mondo reale nasce dalle profondità inconsce dell’individuo. L’io di Amleto ora ha una possibilità di autodefinirsi, di ritrovare consistenza in una missione da svolgere oltre sé, tuttavia l’ordine di tale incombenza viene dall’oltre di un’esperienza traumatica e inquietante che lo getta nelle strettoie dell’ignoto, un oltre oscuro cui non sa dare statuto razionale. E quanto più la volontà discute il dovere, tanto più la tragedia diviene dramma dell’io. Riprendendo Schelling: «Essenza della tragedia è quindi un conflitto reale tra la libertà soggettiva del protagonista e la necessità oggettiva, conflitto che non termina con la sconfitta dell’una o dell’altra, ma col palesarsi della loro perfetta indifferenza, essendo entrambe vittoriose e vinte a un tempo».

Difatti Amleto mentre, nel nome del padre, rimpiange il tempo dell’infanzia, maledice altresì la sua missione primordiale che lo costringe a dover fare giustizia: patisce, perciò, il castigo del dover castigare. In questa spirale malinconica e delittuosa è evidente la tragicità innata derivante dall’espiazione dell’espiazione stessa e, soprattutto, dal malessere del soggetto shakespeariano la cui origine e fine non è altro che Amleto medesimo.

Amleto e il fantasma, Frederick James Shields, 1901 (La Tigre di Carta)

Metateatro di Shakespeare: finzione e sdoppiamento, vendetta e morte

Cionondimeno, nell’Amleto di Shakespeare sussiste un’eccezione allo scetticismo generalizzato: la rappresentazione teatrale in quanto tramite unico della verità. Egli percepisce la finzione teatrale in quanto potente pharmakon per giungere a una cognizione lucida della realtà, di sé e dell’animo umano. Pertanto, per mimèsi ironica del negativo, sorge in lui l’idea di trasformare l’avvitamento paralizzante che s’annida in ogni illusione in strumento di indagine oggettiva della realtà. La vocazione del teatro è sia conoscitiva che etica e in virtù di ciò è fedele al suo scopo di imago veritatis.

Così Amleto, mediante l’artefatto teatrale, intrappola lo zio ponendolo dinanzi alla sua sudicia coscienza e sollecita l’animo incestuoso della madre a confrontarsi con la propria potenziale correità. Dunque, Amleto con l’uso di differenti registri linguistici crea degli slittamenti semantici al fine di stanare i soprusi e le manipolazioni altrui, ma soprattutto in tal modo disvela la natura mendace dei legami interpersonali ed evenemenziali.

A tal proposito, l’amletizzazione della follia si snoda su differenti livelli. In primis, è figlia dell’astuzia e si fonda sulla dissimulazione affinché il principe sdoppi le proprie identità in modo da disorientare i propri antagonisti. In secundis, è alimentata dalla passione malinconica causata dall’impossibilità d’elaborare il lutto e dalla ferita inferta ai suoi sentimenti filiali per il crollo dell’immagine idealizzata della madre degradata – in conformità alla sua morale – al ruolo di meretrice: il candore materno nasconde così la sfrenatezza del peccato. L’ultimo livello è la follia amorosa che spinge Amleto a canalizzare la propria misoginia e il proprio odio verso Ofelia, gettando le premesse perché cada vittima d’una vera follia suicida, e verso l’incredula madre Gertrude.

John Everett Millais – ”Ophelia” (Uozzart)

«Nell’opera di Shakespeare troviamo le follie che s’imparentano con la morte e con l’assassinio». (M. Foucault, Storia della follia nell’età classica).

Però è solo durante l’atroce, tragico e catartico dénouement che si palesa l’effettivo e fatale ruolo di soggetto d’Amleto, al termine di tutti i suoi sdoppiamenti: dopo il duello mortale con lo spregiudicato Laerte e la morte per avvelenamento della propria madre, trafigge a morte e avvelena lo zio Claudio, per poi perire lentamente tra le braccia del fidato Orazio per via d’una ferita infertagli tramite una lama intinta nel veleno stesso. Così la morte, grande livellatrice, ristabilisce l’equilibrio portando con sé tutti i protagonisti principali.

Shakespeare ha dato vita attraverso il suo travagliato Amleto a un nuovo e moderno teatro di parola nel senso più pieno, ossia il non-luogo in cui il discorso costituisce azione di e per sé. Pertanto, a scapito delle ultime parole in punto di morte di Amleto: «il resto è silenzio»; ciò ch’è conseguito dalla sua figura mitica è un incessante frastuono che attraversa inesorabile tutta la cultura teatrale, cinematografica, filosofica, psicoanalitica e storicistica sino ai giorni nostri.

Amleto, dunque, rispecchia ineluttabilmente quel sé umano vittima di valori che crede immutabili e che viene poi assalito dall’horror vacui nel mentre affannosamente scandaglia il più profondo mistero dell’umanità e affronta inerme la più drammatica riflessione sull’esistenza nella sua totalità. Forse il frastuono è la dimensione in cui è condannato il soggetto che tenta in tutti i modi d’esprimere quel radicale, incomunicabile e immisurabile disagio connaturato al soggetto medesimo gettato nella perpetua illusione e dissoluzione in un universo immanente e indecifrabile.

Amleto
Shakespeare
Eugène Delacroix – ”Hamlet and Horatio in the Graveyard” (Movimenti Pittorici)

«Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». (E. Montale, Ossi di seppia).

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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