Villeneuve Dune
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Il nuovo Dune di Denis Villeneuve partiva da aspettative così alte da parte degli appassionati che anche solo imbarcarsi nel progetto sembrava destinare al naufragio. Dall’uscita del romanzo di Frank Herbert nel 1965, infatti, impostosi come un classico della letteratura già negli anni ‘70, il ciclo di Dune è considerato un’opera seminale come pochissime altre del XX secolo: opera ecologista prima che il termine diventasse di uso quotidiano, esempio di worldbuilding fantascientifico come mai prima di allora, Dune è diventato immaginario collettivo al cinema quasi per vie terze (senza Dune non ci sarebbe Star Wars come lo conosciamo, per dirne una), in trasposizioni leggendarie perché mai portate a termine (la collaborazione Jodorowsky/Moebius) o in quella famigerata del 1984 di David Lynch, a suo modo un cult – abiurato però dal suo stesso regista, probabilmente a ragione.
Nel 2021 tornare sul pianeta Arrakis e reimmergersi nella lenta presa di coscienza di Paul Atreides e del suo ruolo nell’universo, riscoprire la cultura dei Fremen, assistere ai giochi di potere tra le varie casate e l’imperatore, cercare di capire cosa sono davvero i vermi giganteschi delle sabbie e a cosa serve la spezia, o essere disgustati/terrorizzati dal barone Harkonnen, era una scommessa che lottava quindi contro la maledizione di Dune al cinema. E Denis Villeneuve, che già aveva affrontato il sequel di un’altra macchina visionaria senza pari (Blade Runner), era forse l’unico capace di portare a termine l’impresa.

La prima cosa da dire è che il Dune di Villeneuve, oltre ad essere fedelissimo alla materia romanzesca, è un film evocativo come pochi visti in questi anni, che cerca di divincolarsi tra la necessità di mostrare un pianeta con la sua componente più materialista e politica, i giochi di palazzo in cui svariate fazioni si contendono la gestione del potere, e il lato visionario del protagonista, quasi trafitto per due ore e mezza di film da profezie che lo confondono – e con lui lo spettatore. Paul Atreides (Timothéè Chalamet) è un ragazzo che sta cercando una strada di cui ancora non vede la direzione, schiacciato tra diverse esigenze che la sua aristocratica famiglia cerca di non imporgli ma con cui deve fare i conti: essere l’erede della casata del padre, il fiero duca Leto (Oscar Isaac), oppure accettare il retaggio della madre Jessica (Rebecca Ferguson), una Bene Gesserit (ordine matriarcale religioso che persegue in maniera cinica l’obiettivo di creare un essere superiore, lo kwisatz haderach, attraverso l’uso di tecniche quasi sovrumane). L’alternativa è imboccare la terza strada a cui le visioni sembrano richiamarlo: che è quella di Arrakis, il pianeta su cui gli Atreides dovranno trasferirsi per ordine imperiale sostituendo il dominio terrificante degli Harkonnen.


Dune - Villeneuve
Fonte immagine: wired.com

Arrakis è un mondo sfruttato per le sue risorse, che portano immensa ricchezza, dove i nativi sono sottomessi alle esigenze di commercio dell’impero e di imponenti corporazioni: metafora del capitalismo più esplicita non potrebbe esserci; ricordando che Herbert scriveva queste cose negli anni ‘60, si comprende il lascito visionario di Dune, la sua attualità, che si nota anche nell’utilizzo di un punto di vista degli oppressi (la tribù dei Fremen, gli unici capaci di adattarsi a un ecosistema spietato dove anche una singola goccia d’acqua è lo scarto tra la vita e la morte), e del modo in cui una fede religiosa può essere la leva attraverso cui sollevare masse di persone in attesa di una rivoluzione, mentre il potere nell’ombra cerca di mantenere lo status quo. Qui è dove Villeneuve si trova (e si troverà: perché sono questioni che soprattutto nella seconda parte diventeranno fondamentali) a dover gestire argomenti molto delicati: il mondo di Dune è infatti intriso di riferimenti al mondo arabo e islamico, sia sul piano linguistico che tematico. Spesso nel film sentiremo dire che Paul potrebbe essere il Mahdi, la figura messianica che guiderà i reietti del pianeta a cacciare gli invasori. Una delle visioni più terribili di Paul riguarda il suo ruolo di leader spirituale in una jihad: termine mai usato in questa prima parte ma che nel mondo di Dune è centrale.
Se questo primo tassello di Dune riesce quindi a soddisfare tutti i palati – anche per scene di azione che, specie nella seconda parte, conducono il film a un finale apertissimo in attesa del seguito – è anche per la preparazione di vari ingredienti di cui abbiamo assaggiato solo una parte: manca l’ultima, la più consistente. E visti gli incassi in Europa la speranza di vederla nei prossimi anni è molto alta.


Ma Dune non è solo azione o dialoghi pregni di machiavellismo o filosofia: è anche cupo, talmente cupo da rasentare a volte l’horror. Ogni sequenza con il barone Harkonnen (interpretato da Skarsgard) è sgradevole, perversa e mette a disagio: immerso in giochi di luci e ombre che, invece di nasconderne il corpo deformato da un’obesità innaturale, la accentuano, il personaggio sembra un Kurtz/Marlon Brando precipitato dalle foreste del Vietnam di Apocalypse Now alle architetture macabre di Giger in Alien. Per non parlare della famosa scena della scatola, in cui Paul viene messo alla prova dalla reverenda madre Bene Gesserit: se nel romanzo di Herbert la contaminazione era con il racconto gotico, Villeneuve continua a essere fedelissimo alla materia e sembra che davvero la dimora di casa Atreides in quel frangente si sia trasfigurata in un castello abitato da fantasmi. Aiutato dal commento sonoro di un Hans Zimmer in forma come da tempo non gli accadeva, a volte Villeneuve si lascia prendere la mano ed esagera, specie nelle visioni di Paul: ma è un peccato veniale da perdonare se il risultato è la migliore trasposizione possibile della prima parte di un romanzo che da tempo reclamava giustizia, con immagini che – viste in sala – a volte sembrano davvero trascinare lo spettatore nelle sabbie di un mondo dove non era mai stato prima. Eppure sente aria di casa.

Nicola Laurenza

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