Donne e dovere della bellezza
Fonte immagine: Pixabay

Secondo Umberto Eco la bellezza non è un ideale atemporale e assoluto, ma è piuttosto un costrutto culturale che muta, evolve, si trasforma e reagisce al contesto di produzione. Sembra però che le cose non stiano esattamente così. Lo stereotipo dominante di bellezza femminile, infatti, sebbene prodotto in seno alla cultura occidentale, estende a macchia d’olio il suo monopolio su ogni contesto etnico. Ecco le nostre #EvidenzeStrutturali verso il 25 novembre.

La bellezza è ovunque bianca e a questo proposito parlano chiaro i dati raccolti dall’Organizzazione mondiale della sanità rispetto all’uso massiccio da parte di donne (e non solo) di prodotti sbiancanti per la pelle in paesi come India e Africa. L’OMS sostiene che la pressione ad aderire allo standard di bellezza occidentale sia tale per le donne nere che «l’industria della schiaritura della pelle è una delle industrie di bellezza in più rapida crescita in tutto il mondo e si stima che varrà 31,2 miliardi di dollari entro il 2024» (per rendere l’idea, si pensi che una multinazionale del calibro di Ikea ha fatturato nel 2020 37,6 miliardi di euro). La riflessione sulla bellezza oltre ad intersecarsi irrimediabilmente con una riflessione sui corpi delle donne, non può voltare la faccia ad un approccio intersezionale. Il mito della bellezza è un carico che plasma prepotentemente l’immaginario delle donne bianche e che si ripercuote con una violenza maggiore sulla vita e sulla coscienza delle donne nere. 

La bellezza come strumento di controllo dei corpi

Nel testo “Specchio delle mie brame”, la filosofa Maura Gancitano sostiene che le donne hanno dovuto progressivamente attenersi ad un canone di bellezza scelto e selezionato dagli uomini.  Per quanto possa apparire paradossale, in questa intuizione giace il nocciolo della questione. I corpi delle donne sono diventati ben presto oggetto prediletto di un’arte e di una letteratura scritta e prodotta unicamente dagli uomini. La produzione culturale, prima dell’avvento dei social media, ha fortemente orientato la fossilizzazione del canone di bellezza dominante. Gli uomini, addetti del sapere, hanno sistematicamente deciso quale fosse il tipo di corpo più avvenente, in quale misura una rotondità fosse ammaliante, quale peso fosse accettabile, quale dettaglio fosse maggiormente desiderabile, cosa fosse o non fosse sensuale. In questa dialettica di genere, le donne sono state atavicamente educate a pensare sé stesse come oggetto di sguardo, piuttosto che come soggetto attivo che posa il suo sguardo sul mondo. E questo le ha addomesticate.

Ne deriva che la coscienza femminile si è drammaticamente scissa: oltre ad essere altro dall’uomo, la donna è altro da sé, si auto-oggettiva nell’immagine riflessa allo specchio e la cerca continuamente per assicurarsi del suo aspetto con un veloce check. Il comportamento spasmodico dell’osservare il proprio riflesso, è emerso da alcune ricerche, è tipicamente legato al genere femminile. Le donne sono costantemente preoccupate del modo in cui appaiono. Questo la dice lunga su quanto sia radicato nella coscienza delle donne il dovere della bellezza, un dovere che implica abnegazione e costante attenzione. Le neonate campagne di body positivity e body confidence, al netto dell’onnipervasivo dovere della bellezza, non sono affatto sufficienti e alimentano un’attenzione sui corpi che rischia di diventare controproducente e pericolosa.

Rifiutare la bellezza tout court, è davvero questa la soluzione?

Se il movimento femminista della prima ondata ebbe da lottare nel campo dei diritti civili per garantire alle donne bianche ed occidentali il diritto di voto, durante la seconda ondata il movimento divenne più eterogeneo e introdusse tra le sue istanze la riflessione sul corpo. La conversazione sulla corporeità della donna era ormai inaugurata, ma la reazione di molte femministe fu di rifiutare quello stesso corpo che la società voleva addomesticare.
La scrittrice, femminista ed attivista statunitense bell hooks, nel testo “Il femminismo è per tutti” , racconta quanto per certe femministe sia stato imprescindibile, ad un certo punto del proprio percorso di autodeterminazione, operare una rinuncia cosciente della propria esteriorità. Molte femministe, in segno di ribellione, finirono effettivamente per non curarsi del proprio aspetto ritenendo che pratiche di maquillage potessero deturpare l’immagine di buone femministe. Se la società proponeva alle donne come unica alternativa quella di essere piacenti, il femminismo proponeva dogmaticamente di non esserlo. Il rifiuto del femminismo di occuparsi dell’aspirazione alla bellezza ha finito per indebolire la politica femminista.

Questo atteggiamento ha confuso le donne che nutrivano una sana e genuina aspirazione alla bellezza e in qualche modo ha rafforzato l’idea che la bellezza non possa essere vissuta altrimenti che come dovere sociale e che ogni donna debba necessariamente scegliere tra essere bella (e stupida) o essere intelligente (e mascolina): entrambe le cose non sono concesse. È forse per questo motivo che il memoir pubblicato dalla top model di fama internazionale Emily Ratajkowski, dal titolo “My Body”, è stato accolto con tanto scalpore.  In quanto donna conforme e tra le più invidiate al mondo, è difficile immaginare che la prigione della bellezza abbia costituito un peso anche per lei. Più semplicemente, è difficile anche solo accettare che una donna bellissima possa avere tanto da dire. A tal proposito ci mette in guardia Naomi Wolf nel libro “Il mito della bellezza” scrivendo che“ tutte le volte in cui ignoriamo o non ascoltiamo una donna perché la nostra attenzione è stata attratta dalla sua taglia, dal suo trucco, dal suo abbigliamento o dalla pettinatura, il mito della bellezza funziona al meglio della sua efficienza”

Essere femministə non deve significare rinunciare alla propria dimensione corporea, ma dotarsi degli strumenti per riappropriarsene. Il femminismo, sebbene non esenti completamente dal rischio di sentirsi sbagliate di fronte allo specchio, promuove consapevolezza e spirito critico. Come dimostrano ben 26 studi recenti editi nella ricerca scientifica “Are feminists Women Protected from Body Image Problems? A meta-analytic review of relevant research”, la pratica femminista protegge le donne dai problemi di immagine corporea. Le donne con identità femminista sono più soddisfatte del proprio corpo e hanno minori probabilità di sviluppare disturbi alimentari.  È importante rivendicare che non solo è possibile recuperare una dimensione autonoma della bellezza, ma è assolutamente necessario ed il femminismo può e deve giocare un ruolo in questa dinamica.

Liberare la bellezza dal dovere è possibile 

Come educare mia figlia a vivere la dimensione della bellezza in maniera sana? Come liberare mia figlia dal dovere della bellezza? È questo il leitmotiv, svelato nelle conclusioni, che ha spinto la filosofa e madre Maura Gancitano a scrivere il suo ultimo libro. La fondatrice di Tlon è del parere che ogni donna, per liberarsi dalla prigionia della bellezza, debba intraprendere un percorso di fioritura personale, oltre che femminista: debba cioè educare sé stessa e le altre donne, figlie, compagne, amiche, a pensarsi come soggettoLa soggettività della donna può essere recuperata nella dimensione del flow.  In psicologia, il flow è una esperienza ottimale, una sorta di trance agonistica che si raggiunge quando una persona è completamente immersa in quello che fa. Questa condizione è caratterizzata da un totale coinvolgimento dell’individuo, che diventa dunque impermeabile al vociare esterno e a tutto ciò che è superfluo. Se le donne sono sempre state abituate a negare o impoverire la propria energia, Gancitano esorta ad educare le nostre bambine a farne liberamente uso: «Sviluppare un immagine positiva di sé consiste nel dare spazio a ciò che ci provoca gioia al solo pensiero, che ci fa sentire nel flusso, che ci fa dimenticare tutto il resto, compreso il dovere della bellezza, ogni giudizio su di noi e la paura dello stigma». 

Non si tratta di nascondersi, ma di coltivare interessi che permettano di usare alle donne le proprie energie verso una direzione che non è imposta da altri che da sé stesse. «La liberazione è legata alla possibilità» – per esempio – «di praticare sport perché dà piacere, non perché modifica il nostro aspetto, concentrandosi solo su come fa sentire e sugli effetti che ha sulla salute e sul benessere in generale».  Promuovere ed educare le bambine ad ambire ad una bellezza che abbia a che fare con l’armonia psicofisica è fondamentale, così come ricordare loro, usando le parole della poeta Caitlyn Siehl, che la bellezza non è un lavoro:

«Quando tua figlia ti chiederà se è bella, il tuo cuore si infrangerà come un calice sul pavimento di legno. Una parte di te vorrà dire certo che lo sei, non dubitarne mai, e l’altra parte, la parte che ti sta dilaniando, ti chiederà di afferrarla per le spalle, di guardarla nei pozzi che sono i suoi occhi finché non rispecchieranno i tuoi e dirle: non devi essere bella se non lo vuoi, non è il tuo lavoro»

Alessia Bassi

Alessia Bassi
“Il vero lettore, penso, cerca non la faccia friabile dell’autrice in carne ed ossa che si fa bella per l’occasione, ma la fisionomia nuda che resta in ogni parola efficace” (E. Ferrante). Napoli, classe 1997. Studentessa di Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Femminista in fieri.

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