Tommaso Labate li chiama I Rassegnàti, quella generazione di quarantenni – poco più, poco meno – che non è stata in grado di ritagliarsi una sua identità, un suo spazio sociale, politico, economico, ma soprattutto che è priva di reali prospettive future, di progetti, di ideali, di capacità di pensiero critico, di intellettuali migliori di un qualunque Fusaro, di un qualunque Gramellini.

Ci meritiamo di meglio o tocca accontentarsi di quello che passa questa generazione?

«Le battaglie per Tutti si sono trasformate in quelle per Me» scrive Labate a proposito della generazione dei rassegnati, nell’omonimo saggio. È il manifesto generalista di quella generazione che oscilla tra i 30 e i 50 anni e che è in parte vittima e in parte artefice di una società depauperata di valori, ideali, intellettuali. Sia beninteso che anche questo articolo è generalista, fa di tutta l’erba un fascio. Un po’ per provocazione, un po’ perché un’analisi statistico-sociologica approfondita non è né nelle corde né nelle capacità di chi scrive e forse neppure è possibile. Un po’ perché o ci uniamo al coro dei rassegnati, oppure speriamo in qualcosa di meglio di Fusaro e Gramellini.

Perché Fusaro e Gramellini?

Perché pur esteticamente diversi e anagraficamente distanti (35 anni il primo, 23 di più il secondo), Fusaro e Gramellini con la loro visibilità e il tono delle loro lezioni al popolino ambiscono a colmare quel vuoto intellettuale che dalla morte di Umberto Eco e dalla diffusione sempre più spasmodica del sapere immediato sembra essere un buco nero che attrae figure assetate di mediaticità, ma prive di reale capacità d’analisi critica e sociale. La cosiddetta classe dirigente che oggi dovrebbe dirigere è ancora alla ricerca di se stessa, di motivazioni, di ideali forze motrici. Sei anni fa Mario Monti la chiamava generazione perduta, quei quarantenni illusi da una politica che non li aveva tutelati, abbandonati dalle generazioni di genitori spendaccioni. 

La generazione perduta tra società e politica

Tornando a Gramellini e Fusaro, la loro dialettica rispecchia alla perfezione la vacuità di una generazione che non è in grado di orientarsi nella società, a metà tra intrattenimento, gaffe, provocatoria spasmodica mediaticità, popolarità imprevista e casuale. La generazione perduta si ritrova in chi ne rappresenta l’assenza di ideali, la necessità di emergere come singoli anche a discapito della collettività.

Quindi, nel marasma generale, chi spicca su colleghi più o meno capaci, più o meno lucidi nell’analisi critica (dote quantomeno necessaria per aspiranti filosofi e/o giornalisti) non è affatto detto che lo faccia per merito, ma probabilmente per essere un testimone più attendibile del popolino a cui si rivolge.

L’intellettuale ha perso il suo ruolo di intellettuale. Oggi non ha neppure l’ambizione di dare una lettura della società, di guidare cultura e civiltà verso nuovi lidi, è un semplice traghettatore spinto dalla corrente. Sulla zattera, della Medusa, tutti gli altri che guardano ammirati.

Nella società governata dalle urla, nessuno sente il pensiero

Una generazione senza santi né eroi, che ha fatto della mediocrità la propria virtù, talvolta dell’ignoranza il proprio chiodo fisso. Così la classe politica che ha soppiantato quella dei sessantenni è ricolma di urlatori di piazza, priva di istruzione degna, di pacatezza, di ars oratoria, ma soprattutto votata alla spasmodica ricerca del consenso elettorale, del mantenimento dei propri scranni. In una società che si configura sempre più come post-ideologica, le post-ideologie trionfano e chi meglio le incarna ha visibilità garantita.

Così i deliri di onnipotenza di Diego Fusaro e i suoi termini iperbolici vengono trasmessi a reti unificate, diventano meme virali, definiscono il suo personaggio come folcloristico e al contempo ammirato da chi, a destra, cerca intellettuali che avvalorino prese di posizione anacronistiche. Così il qualunquismo di Massimo Gramellini insegue il consenso dei lettori, talvolta sbandierando concetti affini a una certa parte politica, talvolta rivolgendosi alla pancia del popolino, quasi a sobillarlo, a dargli un po’ di panem e di circenses, come nel caso arcinoto di Silvia Romano.

Bando al pessimismo, qualcosa di meglio c’è, forse

Non ci meritiamo qualcosa di meglio? Sì, ci meritiamo qualcosa di meglio, e quel qualcosa di meglio probabilmente c’è, basta cercarlo nei meandri delle librerie, del web.

Quel qualcosa di meglio per esempio si chiama Massimo Cacciari, che però appartiene a una generazione ben distante da quella perduta dei vari Fusaro e Gramellini.

Nel vorticoso circolo vizioso della popolarità e del successo del singolo a discapito della collettività emergono figure che sono mediocri espressioni del paese reale, che con savoir-faire da intellettuali ambiscono a traghettarlo da qualche parte, ma non si accorgono di essere in balia della corrente a loro volta. Quello che manca davvero a questa generazione perduta è qualcuno che sappia tirare le fila di una società sempre più complessa e vertiginosa, che con un pizzico di lungimiranza possa estraniarsi dal successo immediato per poterci preparare, tutti, a un futuro ignoto.

Come spesso accade, non è colpa di nessuno in particolare, ma in fin dei conti è colpa di tutti. Dei quarantenni di oggi, dei padri di ieri.

Andrea Massera

1 commento

  1. Io invece penso che il problema non sia generazionale ma esclusivamente politico : è difficile che uno Stato abituato a “occuparsi” dei suoi cittadini letteralmente dalla culla alla tomba e oltre inizi a cedere sovranità . Ma sarebbe ciò che è necessario fare : ridurre la spesa , ridurre lo “welfare “ e lasciare in tasca a chi lavora i frutti del suo guadagno. Solo così si sconfigge l ‘ “identitarismo” ,lasciando a chi può e achi vuole la possibilità economica e materiale di costruirsi un’ identità autonoma e da se’.

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