L’ombra di Breivik è ancora ben visibile a dieci anni di distanza da Utøya
Breivik - Utøya. Fonte: www.adnkronos.com

Il 22 luglio di 10 anni fa, un uomo portò a termine il suo ambizioso piano terroristico in Norvegia. Quest’uomo si chiamava Anders Breivik che, travestito da agente di polizia, fece esplodere un’autobomba nella zona dei palazzi governativi a Oslo. Poi si imbarcò su un traghetto e raggiunse la piccola isola di Utøya, non lontano dalla città. Nei settanta minuti successivi sparò a decine di persone, muovendosi indisturbato per l’isola. Quando arrivarono gli agenti di polizia trovarono un uomo armato con le mani alzate e i modi tranquilli. Questi attacchi colsero di sorpresa e scossero tutto il paese, mentre Breivik fu ritenuto colpevole della morte di 77 persone e di aver compiuto uno dei massacri più sanguinosi nella storia recente d’Europa.

La maggior parte delle vittime erano ragazzi e ragazze di meno di vent’anni che stavano partecipando a un campus estivo della Lega dei Giovani Lavoratori, un movimento giovanile associato al Partito Laburista norvegese, che come ogni estate si era radunato a Utøya per “fare gruppo” e progettare le attività dell’anno successivo. Tuttavia, come ammesso dallo stesso terrorista di estrema destra durante il processo,  il suo vero obiettivo era l’ex prima ministra laburista Gro Harlem Brundtland – che però aveva lasciato Utøya la mattina del 22 luglio. Alla fine, Breivik fu condannato a 21 anni di carcere, la pena massima per il sistema norvegese. Ma le autorità norvegesi, in collaborazione con organizzazioni della società civile, dovettero prendersi cura di centinaia di sopravvissuti e delle altre persone direttamente toccate da quegli avvenimenti traumatici.

Purtroppo l’attentato di Breivik a Utøya ha “fatto scuola”

Agli occhi di Breivik, quell’eccidio avrebbe dovuto contribuire a interrompere il presunto declino dell’Europa, dovuto principalmente a un processo di “islamizzazione” del continente. Con una dinamica che non è infrequente nell’estremismo di destra, la furia distruttrice di Breivik non si diresse contro musulmani, ma contro quelli che alcuni studiosi chiamano i nemici secondari, ovvero soggetti che pur appartenendo apparentemente alla stessa collettività degli estremisti vengono considerati ancor più meritevoli di punizione per averla tradita. Breivik, infatti, detestava i politici di sinistra per aver consentito e persino promosso, a suo avviso, l’invasione islamica e la decadenza della Norvegia e, in generale, dell’Europa. Così il terrorista norvegese è diventato nel tempo un vero e proprio “eroe” per alcuni settori della composita galassia transnazionale di estrema destra.

Per questo motivo, possiamo considerare la strage di Utøya come apripista di una serie di attentati compiuti dal terrorismo suprematista negli anni avvenire. Quello di Breivik è stato infatti soltanto il primo di una serie di attentati, alcuni dei quali furono esplicitamente ispirati alle sue azioni, come il massacro compiuto dall’australiano Brenton H. Tarrant a Christchurh nel 2019, in Nuova Zelanda. Altri personaggi di estrema destra, invece, anche non essendosi apertamente ispirati da Breivik, hanno comunque seguito le sue orme. Per rimanere all’interno dei confini nazionali, come dimenticare Luca Traini il 3 febbraio 2018, a Macerata. O il caucasico texano Patrick Crusius, che ha compiuto nell’agosto del 2019 la strage di El Paso. O ancora il tedesco Tobias Rathien, che ha compiuto il 20 febbraio 2020 la strage di Hanau. In pratica, negli anni successivi al massacro di Utøya, Breivik e le sue azioni sono diventati il punto di riferimento per numerosi terroristi di estrema destra in giro per il mondo.

Tuttavia, seppur affetto da un elevato disturbo narcisistico della personalità – come stabilito dalla perizia psichiatrica – Breivik non è stato un lupo solitario mosso da uno squilibrio mentale, ma una persona che ha saldato i suoi problemi psichici individuali con ideologie proprie degli ambienti di estrema destra. Da adulto, egli si era infatti avvicinato a diversi movimenti e partiti di estrema destra, finendo per accogliere tesi complottiste, razziste e misogine contro le minoranze etniche, i movimenti femministi, gli attivisti per i diritti civili e i partiti di sinistra, tutti obiettivi della retorica aggressiva dell’estrema destra occidentale. Di conseguenza, il massacro di Utøya  non ha fatto altro che mostrarsi come l’inaugurazione simbolica del nuovo suprematismo bianco, che si è diffuso nei dieci anni successivi in tutto l’Occidente – anche grazie a alla inesistenza di regolamentazioni delle piattaforme social. È in quel frangente drammatico che la questione viene infatti alla luce in tutta la sua complessità e la sua virulenza.

L’ideologia della Nuova Destra occidentale

Tuttavia sarebbe quantomeno fuorviante considerare questa Nuova Destra di cui fa parte Breivik come “neofascista”, se con questo si intende la mera espressione di un passato che riaffiora e che, seppure inquietante, resta passato. Essa infatti si allontana da nostalgie del passato andando al di là del tempo del fascismo classico. La Nuova Destra mondiale non vuole “far sognare” i suoi elettori con la nostalgia, ma li vuole convincere pragmaticamente. Possiamo perciò parlare di post-fascismo, dato che esso prende la sua linfa vitale dalla crisi economica e dall’esaurirsi delle democrazie liberali. Democrazie che si identificano oramai, in tutte le loro componenti, con le politiche d’austerità dei paesi occidentali.

Pertanto, il post-fascismo promette come risposta un ritorno all’ordine – economico, sociale, morale. Dunque, lontano dall’essere o dall’apparire “rivoluzionaria”, questa ideologia è profondamente conservatrice nei valori di riferimento, persino reazionaria, ma ancorata alle contingenze presenti. Se essa sa creare e sfruttare la paura presentandosi come baluardo contro i nemici che attualmente minacciano la “gente comune” – la globalizzazione, l’Islam, l’immigrazione, il terrorismo –, le sue soluzioni consisteranno sempre e comunque nel tornare ad un passato mitizzato.

Una delle risorse fondamentali del fascismo classico, la sua ragion d’essere e, nella maggior parte dei casi, la chiave della sua ascesa al potere, è stato l’anticomunismo. Il post-fascismo, invece, ha sicuramente dei nemici ma non sono più il movimento operaio o il comunismo ad alimentarne l’odio e la collera. I bolscevichi sono stati sostituiti dai terroristi islamici che non si nascondono più nelle fabbriche ma nelle banlieue popolate da “minoranze etnico-religiose”. Di fatto, un tratto comune del post-fascismo, ben radicato in tutte le sue varianti, dai movimenti neonazisti ai partiti più “moderati” derivanti dalle destre tradizionali, è la xenofobia. Lo dimostra il “caso Breivik”. Per l’assassino di Utøya l’immigrato è identificato come “straniero” e come minaccia alla società. L’annichilimento dell’alter etnico, sociale e politico è il cardine dell’ideologia postfascista e ne orienta le azioni. Ma se un secolo fa erano gli ebrei e alcune nazionalità di immigrati europei ad essere presi di mira, adesso la xenofobia si focalizza sulle minoranze di origine africana, subsahariana o magrebina, spesso di fede musulmana.

Oggi, dunque, il discorso razzista ha cambiato forma e obiettivo: l’immigrato musulmano ha rimpiazzato l’ebreo. Il razzismo – un discorso impastato di scientismo e di determinismo biologico – ha lasciato il posto ad un pregiudizio culturale che mira a un divario antropologico radicale tra l‘Europa “giudeo-cristiana” e l’Islam. Al posto del multiculturalismo liberale, viene quindi invocato l’ “etnopluralismo”, ovvero l’idea che i diversi gruppi etnici siano uguali ma debbano vivere separati l’uno dall’altro. 

Il post-fascismo non avanza perciò da solo, ma trae forza e legittimazione da una condizione favorevole: le destre radicali e il terrorismo islamico si alimentano reciprocamente. Dunque, l’Islam permette oggi di ritrovare, attraverso una demarcazione negativa, un’ “identità nazionale” perduta o minacciata dalla globalizzazione. Come se la propria nazione fosse una sorta di stato ontologico, un’entità senza tempo che, per vivere, si deve difendere da qualsiasi contaminazione esterna. Questo approccio infatti è accoppiato con il “diritto alla differenza”: Il diritto di ogni popolo, etnia, cultura, nazione, gruppo o comunità di vivere secondo le proprie norme e tradizioni, indipendentemente dall’ideologia o dall’omogeneizzazione globalista.

Tuttavia l’islamofobia non è che un surrogato dell’antisemitismo di una volta perché le sue radici sono profonde e la ricollegano ad una tradizione che gli è propria: il colonialismo. Tale tradizione si nutre della memoria del lungo passato coloniale dell’Occidente. Eppure, apparentemente, il post-fascismo ha abbandonato le ambizioni imperiali del fascismo classico adottando una postura conservatrice e difensiva, ovvero non mira più a conquistare ma a espellere il nemico interno nel nome degli propri valori nazionali. Il colonialismo aveva inventato un’antropologia politica fondata sulla dicotomia tra cittadino e indigeno che fissava le gerarchie sociali, spaziali, razziali e politiche. Oggi, questa divisione codificata dalla legge, viene rievocata con il migrante postcoloniale che si trasforma in corpo estraneo, in un cittadino appartenente ad una categoria particolare: “proveniente dall’immigrazione”.

Non è ancora tutto perduto

La cultura di destra sta quindi riuscendo là dove altre proposte politiche hanno arrancato per decenni, ossia nel rielaborare l’attuale situazione di instabilità sistemica traducendola in un lessico comprensibile e condivisibile da una parte della società che propone soluzioni radicali ma semplici. Sta realizzando un piano politico che sta riuscendo in parte a convincere anche l’astensionismo, dato che si sta proponendo come vettore di coesione sociale nel riaggregare le individualità contemporanee incapaci di rispondere altrimenti alla propria marginalizzazione politica. Ma non è tempo di rassegnarsi all’inesorabile poiché la nuova destra di Breivik può essere ancora contrastata.

La crescita impetuosa di queste forze politiche post-fasciste deve essere l’occasione per mettere finalmente in discussione la nostra identità nazionale e occidentale, cominciando con l’affrontare seriamente il nostro passato coloniale. Solamente tenendo ben presente la nostra storia imperiale sarà possibile non ripetere gli orrori “segregazionisti” commessi fino ad oggi e sottrarre energia alle politiche identitarie delle nuove destre.

Gabriele Caruso

Gabriele Caruso
Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, mi occupo soprattutto di indagare la politica italiana e di far conoscere le rivendicazioni dei diversi movimenti sociali. Per quanto riguarda la politica estera, affronto prevalentemente le questioni inerenti al Regno Unito.

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