Guerra in Siria Putin

Sochi è una città del sud della Russia, rinomato luogo di villeggiatura grazie al suo clima di gran lunga più mite rispetto al resto del paese, e divenuto famoso per aver ospitato le Olimpiadi invernali nel 2014. Da Sochi, dopo il recente incontro tra Putin ed Erdoğan, passa anche il destino della guerra in Siria. E che le sorti di uno dei conflitti più discussi degli ultimi anni passino dalla Russia rende anche l’idea della potenza strategica raggiunta dallo zar del Cremlino in ambito geopolitico, e in particolare in Medio Oriente.

Guerra in Siria: il fallimento del “cessate il fuoco”

L’incontro tra i due Capi di Stato era previsto (non casualmente) proprio per il giorno in cui sarebbe terminata la tregua di 120 ore, concordata tra Turchia e Stati Uniti per permettere la ritirata dei civili e delle milizie curde da un’area di 32 chilometri di distanza dal confine turco. Un apparente risultato diplomatico che però nascondeva già dall’origine un evidente bluff: senza una resa totale e incondizionata da parte dei combattenti delle YPG e delle YPJ, esaurita la tregua sarebbe ripreso più spietato che mai l’attacco all’autonomia del Rojava. In pratica, un modo grossolano per guadagnare tempo.

Una tregua, oltretutto, praticamente non rispettata. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani ha denunciato diverse violazioni del “cessate il fuoco” da parte turca: non ultimi gli attacchi di lunedì 21 ottobre che hanno causato la morte di quattro combattenti delle SDF nel villaggio di Debs, nei pressi della città di Ain Issa; e la morte di altri tre miliziani curdi nella zona di Abu Rasin, periferia est di Ras al-Ain. Per tutta risposta, il tenente colonnello turco Nadide Sebdem Aktop ha dichiarato che le forze armate turche hanno completamente rispettato l’accordo, mentre i “terroristi del YPG/PKK” avrebbero portato avanti 42 violazioni. Alle quali la Turchia si sarebbe riservata, ovviamente, il diritto di rispondere.

Cosa dice l’accordo tra Putin ed Erdoğan sulla guerra in Siria

A Sochi i due Capi di Stato sono rimasti a colloquio per sei ore: un incontro lunghissimo che ha dato vita a quello che la stampa turca ha definito “un accordo storico”. L’intesa prevede che, dalla mezzanotte del 23 ottobre, la tregua già iniziata il 17 ottobre venga prolungata di altre 150 ore; e dà vita, soprattutto, a un pattugliamento congiunto entro 10 km dal confine turco-siriano della polizia militare russa e della polizia di frontiera siriana, volto a eliminare la presenza dei combattenti curdi nella stessa fascia di 30 chilometri a sud del confine prevista dalla tregua con gli USA.

Guerra in Siria mappa Putin Erdogan
Il nuovo assetto della Siria dopo l’accordo di Sochi tra Putin ed Erdoğan. (via Twitter)

Alla Turchia viene inoltre riconosciuta una sfera d’influenza nell’area, già passata sotto il controllo turco nell’ambito dell’operazione Peace Spring, tra Tel Abyad e Ras al-Ain; nonché viene riconosciuta la garanzia di una smobilitazione completa dell’apparato militare curdo a nord-ovest, nella zona compresa tra Manbij e Tal Rifat. Infine, nel solco tracciato dagli accordi di Astana del maggio 2017 tra Turchia, Russia e Iran, è stata programmata per il 29 e il 30 ottobre la prima riunione del Comitato Costituzionale Siriano, da tenersi a Ginevra. Per discutere del futuro assetto dell’area dopo la fine della guerra in Siria.

Chi ne esce vincitore

Il primo, grande e indiscusso vincitore è lo zar del Cremlino, Vladimir Putin. La Russia “rischia” di uscire dal conflitto con un’importanza nettamente maggiore rispetto all’inizio della guerra in Siria: lo dimostrano le due basi militari di Tartus, unico sbocco russo sul Mediterraneo, già in orbita sovietica e poi confermata e ampliata da un’accordo del 2017; e Hmeimim, base aerea costruita come appoggio provvisorio e poi divenuta parte fissa del contigente russo nel Paese. Ma soprattutto si qualifica come interlocutore imprescindibile per chiunque abbia velleità di potere in quell’area. Portavoce ufficiale delle posizioni di Assad e del governo siriano da lui sostenuto, certo, ma anche partner molto più affidabile per Turchia e Iran rispetto a quanto non siano ormai gli Stati Uniti di Donald Trump.

Ma a uscire vincitrice dall’accordo di Sochi è anche la controparte turca, rappresentata da Erdoğan. La Turchia ha in sostanza ottenuto dalle grandi superpotenze (Russia prima, USA poi) la garanzia di una lotta senza quartiere a quelli che i turchi definiscono “i terroristi”, rifiutandosi di sedere al tavolo con la controparte curda come invece auspicato dall’Unione Europea. Non solo: con la concessione di sfere d’influenza in territorio siriano, la Turchia pone una seria minaccia nei confronti dell’unità territoriale della Siria.

E chi ne esce sconfitto

Proprio il governo di Assad non può dirsi felice dell’accordo raggiunto tra Putin ed Erdoğan. Nella mattina del 22 ottobre, giorno dell’incontro di Sochi, Assad ha definito Erdoğan come “un ladro che sta rubando le nostre terre“, spingendo il Capo di Stato turco a chiarire che l’intento della Turchia è solo quello di respingere i curdi, nel pieno rispetto degli attuali confini territoriali. Ma il riconoscimento della presenza turca nell’area tra Tel Abyad e Ras al-Ain taglia anche in due l’autostrada M4, dall’importanza strategica fondamentale perché attraversa tutto il nord della Siria, l’area interessata dal conflitto, da est a ovest.

La lettera scritta da Trump ad Erdoğan per cercare – invano – di evitare l’attacco turco ai curdi. (Foto: Reuters)

A perdere sono anche gli Stati Uniti, privati di qualsiasi di potere decisionale: emblematica, in questo senso, è la lettera del 9 ottobre in cui Trump chiedeva ad Erdoğan di evitare l’attacco ai curdi, proprio nel giorno dell’inizio dell’operazione militare. Ovvia conclusione di una guerra in Siria nella quale gli USA non hanno quasi mai toccato palla, tra appoggi sconsiderati (i “ribelli moderati” usciti quasi subito dal tavolo delle trattative) e tradimenti improvvisi (il ritiro delle truppe che ha permesso a Erdoğan di agire nel Rojava). E lo stesso vale per l’Unione Europea, incapace di andare oltre un timido sostegno ai curdi per la paura di entrare seriamente in rotta di collisione con la Turchia (con la quale pende ancora un accordo da 3 miliardi l’anno per “appaltare” ai turchi la gestione dei profughi siriani).

Ma soprattutto, e non poteva essere altrimenti, i veri sconfitti sono i curdi. Nelle trattative che seguiranno la fine del conflitto nessuno si farà portavoce delle richieste di autonomia del Kurdistan e del progetto di confederalismo democratico tuttora applicato nel Rojava: di certo non quell’Erdoğan che considera i combattenti curdi una minaccia peggiore dell’ISIS, né tanto meno l’asse Assad-Putin che pone come condicio sine qua non l’integrità territoriale della Siria secondo i confini attuali. Alla fine, tutto ciò che rimane dei sogni dei curdi è il sangue: quello versato dai martiri nella lotta all’ISIS, che rischia di essere vanificato dal sangue versato in queste ore dai resistenti all’invasione turca. Tutto sotto gli occhi, colpevolmente indifferenti, dell’Occidente.

Simone Martuscelli

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