In Amazzonia gli indigeni si mobilitano tra l'indifferenza dei potenti
Michael DANTAS / AFP

Il disastro ambientale in Amazzonia, come prevedibile, ha catturato l’attenzione dei media mondiali che da giorni stanno dedicando ampio spazio agli incendi in atto, alla deforestazione forzata della foresta e alle sofferenze dei suoi legittimi abitanti: gli indigeni.

Come anticipato in un precedente articolo, la situazione appare piuttosto grave, nonostante la politica locale abbia più volte affermato il contrario. Nei primi otto mesi dell’anno in Brasile sono scoppiati circa 75mila incendi, di cui 40mila nella sola Amazzonia, un aumento dell’84% rispetto all’anno precedente. Se volessimo fare un paragone con una cosa a noi più conosciuta, nella sola Amazzonia brucia una superficie pari a tre campi da calcio ogni minuto.

Ma non è solo la natura a pagare lo scotto commesso da un’umanità troppo attaccata al vile denaro, bensì anche gli indigeni che da secoli abitano quelle stesse terre. La necessità di far fronte alla crescita economica del Paese e il sopraggiungere della crisi hanno spinto la politica a giustificare lo sfruttamento e la deforestazione del “polmone verde” del pianeta. Una sciatteria e un’ignoranza dettate dal mero tornaconto personale, il quale però non tiene in conto la vitale importanza che l’Amazzonia riveste per l’equilibrio climatico e, di conseguenza, per l’intero genere umano.

L’importanza dell’Amazzonia

L’Amazzonia, stando alle ultime stime, fornisce agli esseri viventi circa il 6% dell’ossigeno presente sulla Terra. Tuttavia, dal 1970 sono andati persi circa 800.000 chilometri quadrati di foresta in favore di coltivazioni e miniere. Un quarto di quell’immenso patrimonio boschivo, la cui vastità permette di sottrarre dall’aria una grande quantità di anidride carbonica, è andato perso.

Basterebbero soltanto queste parole per comprendere quanto l’Amazzonia rivesta un’importanza fondamentale non solo per il Brasile, ma per il mondo intero. A causa della deforestazione massiccia a cui da diversi anni è stata sottoposta, la temperatura del pianeta è aumentata di mezzo grado. Se la situazione dovesse persistere o peggiorare, continuerà ad aumentare con tutte le conseguenze del caso. Tale assunto ci riporta a ciò che Greta Thunberg continua a ripetere da mesi: il cambiamento climatico è il nemico numero uno per la sopravvivenza sul pianeta.

L’equazione è semplice: meno estesa sarà la foresta, meno CO2 il nostro pianeta potrà assorbire. Inoltre, essendo quella amazzonica una foresta pluviale, la sua deforestazione sarebbe deleteria sulla sua capacità di generare piogge. Ciò avrebbe delle dannosissime conseguenze sui cicli agricoli, quelli che gli stessi agricoltori vorrebbero intensificare aumentando la superficie coltivabile; senza parlare dell’enorme biodiversità che l’Amazzonia custodisce al suo interno.

Perché si appiccano gli incendi

Il motivo principale per cui vengono appiccati gli incendi in Amazzonia è per aumentare l’estensione dei terreni coltivabili. Col tacito consenso della politica locale, i contadini appiccano un rogo, rimuovono le macerie e poi “instillano” una coltivazione.

Oltre all’agricoltura, però, esistono anche altri mercati: le miniere e gli alberi. Il legno tropicale è molto pregiato, quindi prima di appiccare il rogo i contadini abbattono gli alberi pregiati e spediscono il legno nei mercati dov’è più richiesto. Le miniere sono principalmente di bauxite, oro e ferro.

Il Presidente Bolsonaro, secondo alcuni vittima di un complotto “comunista”, da quando è stato eletto ha dedicato la sua attenzione a quello scorcio di parlamentari definito dai brasiliani come “Bancada Ruralista”, il fronte che difende gli interessi dei proprietari terrieri. Da quando è in carica gli incendi sono aumentati; le sue dichiarazioni sprezzanti nei confronti dell’ambiente e la conseguente deregulation ambientale che ha aperto le porte ad ogni tipo di speculatore non possono essere considerate una coincidenza.

La mobilitazione degli indigeni e l’indifferenza dei potenti

In Amazzonia vivono circa un milione di persone. La foresta è la casa di 305 popoli che, nel corso dei secoli, hanno contribuito a plasmarla e ad alimentare la sua grande biodiversità. Alcuni di questi non hanno mai avuto nessun tipo di contatto con il mondo civilizzato, ma ora rischiano di essere spazzati via dalle violenze di coloro che, in preda alla furia capitalista, sono pronti a spogliarli della propria dimora.

L’ingordigia affaristica ha messo a rischio questo patrimonio di diversità umana. Jair Bolsonaro, che in una dura intervista ha sottolineato la sua “poca simpatia” per gli indigeni, ha sferrato un attacco senza precedenti nei confronti degli autoctoni che rende vane le loro lotte per i diritti.

Per questo motivo, gli stessi indigeni hanno deciso di mobilitarsi per difendere le loro terre e soprattutto il loro diritto alla vita. Contro l’agro-business, le miniere e la deforestazione forzata, gli indigeni hanno sfruttato la giornata internazionale delle popolazioni indigene (9 agosto), in concomitanza con il Forum nazionale delle donne indigene, per manifestare contro Bolsonaro e la sua scellerata politica nei confronti dei diritti dell’Amazzonia.

Un migliaio di donne sono scese in piazza a protestare per la salvaguardia della loro casa e la difesa dei diritti degli indigeni. Al grido di “Territory: our body, our spirit“, più di tremila donne e cento gruppi etnici hanno occupato il Segretariato speciale della salute indigena, presso il Ministero della Salute brasiliano. La protesta di migliaia di donne è riuscita a far luce anche sulla loro condizione in Brasile. Una condizione difficile sottolineata dalle statistiche (viene uccisa una donna ogni due ore).

La loro mobilitazione è sinonimo di valore. Un popolo, pur così bistrattato e privo di considerazione, è riuscito a conquistare le attenzioni internazionali grazie al proprio coraggio e alla propria forza d’animo. Una protesta nata dalla necessità di dover gridare al mondo il sopruso che Bolsonaro sta compiendo ai danni dell’Amazzonia e a coloro che da secoli la abitano.

Una protesta che è arrivata fino in Europa. Su tutti il presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha accusato Jair Bolsonaro di essere co-responsabile di quanto sta accadendo. Di tutta risposta, quest’ultimo dapprima ha negato l’emergenza in corso, facendo riferimento al fatto che in confronto agli ultimi 15 anni non c’è stato nessun aumento degli incendi o della deforestazione, poi ha accusato le ONG di tramare contro di lui.

Il Presidente del Brasile, senza fornire alcuna prova, ha affermato che le organizzazioni non governative vorrebbero vendicarsi perché si son viste tagliare i fondi. Accuse a cui si aggiungono altre giustificazioni, puntualmente smentite, riguardanti il clima secco. Secondo gli esperti, quei roghi sono “umani”, poiché appiccati dagli stessi agricoltori a cui Bolsonaro, dall’inizio del suo mandato, ha strizzato l’occhio.

Nonostante la sfrontata sicurezza con cui Jair Bolsonaro ha esposto le sue considerazioni (o meglio, accuse), la minaccia di sanzioni ha costretto il tronfio presidente a mobilitare l’esercito per far fronte al disastro. Anche Donald Trump è intervenuto nella discussione, proponendo il suo aiuto a Bolsonaro per spegnere i roghi. L’Unione Europea, invece, ha semplicemente espresso “preoccupazione” per ciò che sta accadendo.

Attenzioni che non hanno prodotto nulla di concreto se non qualche tweet inutile. La responsabilità di quello che sta succedendo in Amazzonia è anche dell’Unione Europea, a causa degli interessi commerciali che gli stati vi ci coltivano. Se da un lato i potenti d’Europa twittano preoccupazione, dall’altro favoriscono la deforestazione di un patrimonio ambientale.

L’accordo UE-Mercosur tra l’Unione Europea e alcuni stati sudamericani è il principale indiziato di quanto sta accadendo. L’accordo, ora a rischio, ufficializzerebbe il già esistente sodalizio commerciale tra i due continenti nel settore agroalimentare. L’Unione Europea, in cambio di sconti sull’export di automobili e farmaci, acconsentirebbe a importare grandi quantità di carne bovina e soia. Stando al compromesso, all’aumento della richiesta di questi alimenti corrisponderebbe un’aumento degli incendi delle foreste, per fare spazio a nuovi campi per le coltivazioni e il bestiame.

L’Europa, dunque, sarebbe complice della depredazione ecologica in atto in Amazzonia. Per mantenere i loro livelli attuali di consumo, l’Unione Europea e l’Occidente intero sono pronti a sacrificare il loro futuro. Un discutibile interesse che ha fatto naufragare le ultime speranze di chi, auspicando una redenzione delle classi dirigenti grazie all’inserimento di punti programmatici ambientali, credeva in una responsabilizzazione della politica.

Donatello D’Andrea

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