Populismo, destra, Lega, Fratelli d'Italia
Fonte: linkiesta.it

Da diversi anni a questa parte la scena politica italiana è dominata da individui che hanno fatto della retorica e della semplicità dialettica i loro cavalli di battaglia. Gli scontri politici, finalmente, sono diventati molto più comprensibili. Il politichese in doppiopetto e cravatta sembrerebbe essere scomparso, lasciando il fianco agli slogan e a degli uomini comuni ma “illuminati”. È la quintessenza del populismo moderno: un leader, che si rivolge alla massa con un linguaggio semplice ed efficace nel tentativo di sembrare il più empatico possibile. È il caso, almeno a destra, della Lega di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, due partiti che sono riusciti a capitalizzare un enorme consenso proprio grazie a un linguaggio profondamente populista.

Mentore di questo nuovo modo di fare politica è proprio colui che più di tutti sta soffrendo le leadership dei novelli Bonnie e Clyde: Silvio Berlusconi. Nel 1994, anno della sua “discesa in campo”, l’imprenditore milanese usò la televisione per avvicinarsi al popolo. Attraverso una retorica volta a identificare come colpevoli dello sfacelo del Paese la classe dirigente primo-repubblicana, l’ex Cavaliere adottò un linguaggio aggressivo, mistificatorio e soprattutto comprensibile. I temi erano, ovviamente, diversi rispetto a quelli di oggi, poiché diverse erano le esigenze del Paese. All’epoca si parlava di riforme strutturali, oggi, invece, si parla di MES, Unione Europea e immigrazione.

L’unica cosa che li accomuna è che entrambi sono concepiti solo per soddisfare delle esigenze prettamente elettorali. Il populismo mette sul tavolo dei problemi, li mistifica fino a renderli insostenibili, ma non propone nessuna soluzione.

Non si può negare, però, che questa nuova forma comunicativa renda tanto in termini di consenso. Matteo Salvini è riuscito a sfiorare “quota 30%”, mentre Giorgia Meloni, dopo le elezioni umbre, è riuscita a sfatare il tabù del 10%. Coloro i quali, invece, cercano di mantenere una forma più istituzionale, nel vano tentativo di dettare una linea politica senza sbraitare a destra e a manca, non riescono a far breccia nel cuore degli elettori.

È il caso delle due forze di governo, PD e M5S, che tra mille difficoltà stanno cercando di pubblicizzare al meglio i contenuti dei loro provvedimenti. Questi tentativi, però, sono resi continuamente vani da una retorica populista molto più forte ed efficace, la quale tende a diffondere il più delle volte molte notizie false. Il trionfo della forma sulla sostanza?

Una perenne ed efficace campagna elettorale

La Lega e Fratelli d’Italia, in campagna elettorale, hanno insistito molto sugli stessi argomenti adottando spesso la stessa permeante retorica, volta a ipnotizzare l’elettorato in ascolto. Ripetere slogan martellanti, fino allo sfinimento, non è una strategia nuova e soprattutto non è stata adottata solamente dai due partiti sopracitati. Anche Matteo Renzi, altro abile comunicatore, ha coniato molte parole d’ordine nella sua precedente esperienza governativa (“L’Italia cambia verso”, ad esempio). Il populismo, nelle sue diverse forme, si riconosce soprattutto in campagna elettorale, quel momento in cui, almeno in Italia, si promette di tutto.

Immigrazione, sicurezza, Unione Europea. Sono questi i principali temi su cui la politica si è concentrata in campagna elettorale e su cui è stato possibile articolare una serie di slogan volti a sottolineare come la situazione fosse fuori controllo. Infatti, l’arma preferita dal populismo di destra è la percezione. La Lega e Fratelli d’Italia hanno lavorato molto sul rendere sempre più impellente un problema, distogliendo la cittadinanza dalla realtà e facendo leva sulle emozioni di ognuno. Così facendo, la campagna elettorale si è svolta in termini populistici e non su temi davvero rilevanti come l’economia, il lavoro e l’ambiente. Il tutto condito da una serie di richiami religiosi che hanno messo, e continuano a mettere, a dura prova le fondamenta laiche dello Stato.

Ciò però non significa che il populismo di destra abbia elaborato una soluzione a ciò che andava propagandando. Considerare risolutivo un blocco navale, un porto chiuso oppure il respingimento in massa significa ignorare totalmente la realtà che ci circonda. Più volte è stato sottolineato come tali politiche siano perlopiù slogan propagandistici e nient’altro.

In poche parole il populismo (in questo caso di destra), in un contesto sano si scioglierebbe come neve al sole una volta terminata la campagna elettorale, che in Italia assomiglia molto di più ad una vendita all’ingrosso. Affinché il consenso non si affievolisca è necessario dunque un clima di perenne propaganda elettorale. L’esperienza di governo della Lega ne è la dimostrazione: due Decreti Sicurezza, al vaglio della Corte Costituzionale, una legge sulla legittima difesa che modifica davvero poco e una riforma pensionistica che costa 20 miliardi in tre anni senza creare turnover. Ciò che, però, tutti ricordano è la “finta” lotta contro le ONG, la quale è servita all’ex ministro per apparire come l’unico eroe a battersi contro il “sistema” del traffico degli esseri umani.

Un’esperienza “misera” ma non per i social

Il “vero” bilancio dell’esperienza di governo del leader della Lega è davvero misero. I dati parlano chiaro: diciassette giornate piene all’interno del Ministero, un’indagine per “abuso” dei voli di Stato e soprattutto centinaia di migliaia di euro spesi per la propaganda sui social network. Proprio quest’ultima risulta essere l’arma più importante nelle mani di Giorgia Meloni e del suo collega, per una serie di motivi.

Grazie alla continua presenza sui social network, Matteo Salvini e Giorgia Meloni paiono agli occhi dell’elettorato dei veri e propri “stakanovisti”, cioè lavoratori instancabili. Le reti sociali son diventate un vero e proprio strumento di propaganda, un po’ come la celeberrima “luce accesa” a Palazzo Venezia durante il Fascismo (“il governo non dorme mai”).

Più di dieci post al giorno inducono l’elettore a credere che il leader di turno voglia continuamente comunicare con la propria base gli esiti del proprio lavoro. In questo caso, non si tratta più di avere a che fare con un soggetto politico bensì con un “uno di noi”. Selfie con i “fan” (fan, non elettori), foto con un barattolo di Nutella in un momento di “tregua” o con un piatto di pasta cucinato “da sé”: tutte azioni miranti a creare un rapporto di amicizia fittizia con il proprio elettorato.

Questa nuova concezione del populismo di destra non ha solo l’obiettivo di creare empatia nei confronti dell’elettorato, bensì anche di “fidelizzarlo”. A questo scopo rispondono anche i famosi ritagli di giornale (o i famosi cartelloni) che il populismo di destra ha eretto a proprio “modo di informare”. Non importa se la notizia sia una fake news o se i dati siano stati manipolati volontariamente: agli elettori, stranamente, non interessa.

Uno dei tanti cartelloni del leader della Lega. Anche mostrarli in tv risponde ad una precisa strategia: “il leader è informato poiché porta dati in supporto alle sue teorie”. Strategia ripresa anche dal leader di Fratelli d’Italia, soprattutto sui social.

Una politica “molto social” ma “poco sociale”

Il fatto che la politica sia stata radicalmente trasformata dalle nuove tecnologie è un presupposto più che prestabilito, una realtà che emerge chiaramente dalla cronaca quotidiana degli ultimi dieci anni. Da Obama a Donald Trump, passando per la rivoluzione digitale dei Cinque Stelle. L’ultimo caso, emblematico, è quanto avvenuto in Ucraina con l’elezione di Zelenski, ex attore di Netflix.

Non c’è dubbio, però, che la politica social più efficace, in questo momento, sia quella adoperata dai populisti di destra. Il “merito” di questo successo digitale non è solo da attribuire ai leader di Fratelli d’Italia o della Lega, bensì anche ai loro social media manager. Sono delle squadre, o degli individui, i quali scrutano gli argomenti di tendenza sui social e pubblicano post a nome dei loro leader. Questi esperti di tendenza hanno il merito di aver reso appetibili certi personaggi politici agli occhi dell’elettorato. Grazie a questi team di esperti, i quali scrutano gli interessi e le tendenze giornaliere degli elettori, sembra che Salvini e Meloni stiano sempre “sul pezzo”.

Dal grafico si evince come tra l’1 e l’8 dicembre gli italiani abbiano risposto alla “gaffe” di Salvini sulla Nutella. Fonte: Google Trends

Certe volte, però, sembrerebbe che i due leader prendano dei “granchi”, come nel caso della vicenda sulla Nutella: ciò non deve trarre in inganno. Anche un errore del genere risponde ad una precisa strategia, quella del “nel bene o nel male, purché se ne parli”. La Bestia di Matteo Salvini e la Bestiolina di Giorgia Meloni rappresentano la mente, la voce del populismo di Lega e Fratelli d’Italia. Ogni loro azione è finalizzata al raggiungimento di un obiettivo ben delineato.

Se Maurizio Costanzo “umanizzò” i politici attraverso i suoi salotti televisivi, i social media manager li hanno resi parte della vita di tutti i giorni attraverso post, video e dirette su ogni singolo argomento che caratterizza le loro giornate, politiche o private.

La politica si è evoluta. Il consenso non è più figlio dei contenuti, delle piazze gremite di folle eterogenee, bensì di elettorati “targetizzati” in base agli interessi, gusti e altri fattori, a cui si aggiungono concorsi (tipo il “vinci Salvini”), la profilazione politica (Cambridge Analytica) e le fake news.

Ogni tentativo di uscire dai canoni populisti per ristabilire l’istituzionalità del dibattito viene respinto non solo a causa dell’assordante rumore provocato dalla propaganda di Lega e Fratelli d’Italia, ma anche dagli elettori stessi, assuefatti dal tifo politico, cioè un prodotto della fidelizzazione elettorale che non permette alcuna mediazione critica e nessun confronto. I messaggi sono fortemente orientati: o d’amore o di odio. Il risultato è un dibattito estremamente polarizzato, il che porta alla nascita di fazioni. Ci sono gli amici o i nemici, proprio come nel calcio. Il problema è che la politica non è una finale di Champions dove in gioco c’è una coppa, in politica è in gioco il destino di un Paese.

Il nuovo volto di questa politica, populista e demagogica, piace all’elettorato, nonostante le conseguenze che un dibattito polarizzato, acritico e scarno di contenuti possa produrre non sorridano al futuro sociale, economico e politico di una democrazia, la quale, ciononostante, continua a seguire la strana tendenza post-moderna dove la forma conta più della sostanza.

Donatello D’Andrea

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